MICHAEL CONNELLY

VUOTO DI LUNA

(Void Moon, 2000)

 

Per Linda,

per i primi quindici anni

 

Il frastuono del casinò si diffondeva tutt'intorno, eppure sembrava che la frenesia del gioco non riuscisse a scalfire il loro mondo.

Lei interruppe il contatto tra i loro occhi per volgere lo sguardo verso il tavolino. Sollevò il bicchiere: ormai non conteneva che alcuni cubetti di ghiaccio e una ciliegina, ma non le importava. Anche lui sollevò il suo, in cui restava un'ultima sorsata di birra schiumosa.

«Alla fine» disse lei.

Lui sorrise e annuì. La amava, e lei lo sapeva.

«Alla fine» replicò lui. Poi fece una pausa. «Al luogo dove il deserto diventa oceano.»

Anche lei sorrise. Avvicinò il bicchiere al suo, facendolo tintinnare, poi lo accostò alle labbra. La ciliegina le rotolò in bocca. Guardò il suo uomo mentre si asciugava la schiuma della birra dai baffi. Anche lei lo amava. Sentiva che erano soli contro l'intero fottuto mondo, ma quella sfida la esaltava.

Poi il suo sorriso si spense. Si rese conto di aver sbagliato: avrebbe dovuto prevedere la reazione di lui e sapere che non l'avrebbe più lasciata agire in prima persona. Sarebbe stato meglio aspettare che tutto fosse finito prima di dargli quella notizia.

«Max» gli disse in tono grave. «Lasciami andare. Dico sul serio. Un'ultima volta.»

«Neanche per sogno. Stavolta tocca a me. Ci vado io.»

Dalla sala del casinò giunse un urlo di gioia tanto potente da infrangere la barriera che sembrava isolarli dall'ambiente. Lei guardò di lato e vide un texano con un cappello Stetson da cow-boy che danzava davanti a un tavolo di dadi, proprio sotto la galleria che si sporgeva sulla sala da gioco. Al texano stava appiccicata la solita accompagnatrice a noleggio, una donna con una gran massa di capelli che lavorava nei casinò fin dai tempi in cui Cassie aveva iniziato la sua attività di croupier al Trop.

Cassie tornò a guardare Max.

«Non vedo l'ora di lasciare per sempre questo posto. Almeno tiriamo a sorte chi di noi deve farlo.»

Max scrollò lentamente il capo.

«Non è una partita a carte. Questo colpo spetta a me.»

Poi si alzò e lei rimase a osservarlo dal basso. Era bello, cupo, e lei notò con tenerezza la piccola cicatrice sotto il mento, dove non gli cresceva la barba.

«È ora» disse Max.

Si voltò verso la sala guardandosi attentamente attorno, finché il suo sguardo si fermò sull'estremità della galleria sovrastante. Da lassù un uomo vestito di scuro scrutava la sala come un prete una comunità di fedeli.

Lei cercò di sorridere di nuovo, ma non riuscì neppure a sollevare gli angoli della bocca. Qualcosa non quadrava. Quello scambio delle parti all'ultimo momento la rendeva nervosa. Si rese conto solo allora di quanto avesse voglia di salire lei all'attico e di quanto le sarebbe mancata l'adrenalina che il colpo le avrebbe pompato nel sangue. Capì anche che in realtà stava pensando solo a se stessa, non a Max. Non si preoccupava per lui: semplicemente, avrebbe voluto provare quella ebbrezza un'ultima volta.

«Qualunque cosa succeda» disse Max, «prima o poi ci rivedremo.»

Lei aggrottò la fronte. Un saluto simile non rientrava nel loro rituale, non si erano mai separati in un modo tanto triste.

«Max, cosa c'è che non va? Perché sei nervoso?»

Max abbassò lo sguardo verso di lei e alzò le spalle.

«Perché questa è l'ultima volta, immagino.»

Si sforzò di sorridere e le carezzò una guancia. Poi si chinò e la baciò, spostando rapidamente le labbra sulle sue. Abbassò una mano sotto il tavolo e le fece scorrere un dito lungo l'interno della coscia, seguendo la cucitura dei jeans. Si raddrizzò senza una parola e si avviò. Attraversò la vasta sala da gioco diretto verso gli ascensori. Lei lo osservò allontanarsi, ma lui non si voltò. Faceva parte del rituale: mai voltarsi indietro.

 

I

 

1

 

La casa sulla Lookout Mountain Road era un po' discosta dalla strada, rannicchiata contro la ripida parete del canyon. Davanti all'abitazione si stendeva un lungo prato verde che spaziava dall'ampio portico dell'ingresso fino alla palizzata bianca che costeggiava la strada. Non era frequente vedere un prato così ampio e ben curato nel Laurel Canyon. Quel prato era certamente il punto di forza per la vendita della proprietà.

Nell'inserto immobiliare del Los Angeles Times era indicato il giorno in cui si poteva prendere visione della proprietà: le visite sarebbero iniziate alle due del pomeriggio per proseguire fino alle cinque. Cassie Black accostò al marciapiede con dieci minuti di anticipo sull'orario di inizio: nessuna macchina sul vialetto, nessun segno di attività in casa. Non vide neppure la Volvo bianca che apparteneva ai proprietari, di solito parcheggiata fuori. Non poteva sapere dove fosse l'altra auto, la BMW nera, poiché il garage sul lato della casa era chiuso. Comunque, l'assenza della Volvo la convinse che i proprietari avevano preferito andarsene per evitare la confusione. Meglio così. Cassie non era in grado di prevedere le sue reazioni se li avesse incontrati con la bambina.

Rimase seduta nella Boxster fino alle due in punto, quando cominciò a preoccuparsi. Pensò di avere sbagliato ad annotare gli orari oppure, peggio ancora, immaginò che la casa fosse già stata venduta e ogni ulteriore visita annullata. Aprì l'inserto immobiliare appoggiato sul sedile accanto e controllò di nuovo l'annuncio. Non si era sbagliata. Osservò il cartello IN VENDITA sul prato e si assicurò che il nome dell'agenzia coincidesse con quello sull'annuncio. Tutto a posto. Prese il cellulare dallo zainetto e cercò di chiamare l'agenzia immobiliare, ma non riuscì a stabilire il collegamento. Il fatto non la sorprese: dal Laurel Canyon era quasi impossibile contattare con un cellulare i quartieri collinari di Los Angeles.

Cercando di tenere a freno l'ansia, osservò la casa. Stando all'annuncio sul giornale era una villa con veranda in stile California Craftsman, costruita nel 1931. A differenza delle abitazioni più recenti, non solo era più arretrata rispetto alla strada, a ridosso della collina, ma pareva anche possedere una personalità più decisa. Era più piccola delle altre case: evidentemente l'architetto aveva preferito valorizzare l'ampio prato e gli spazi all'aperto della proprietà.

La villa aveva un lungo tetto grigio spiovente, dove si affacciavano le due finestre della mansarda. Cassie sapeva che una finestra corrispondeva alla camera da letto della coppia e l'altra alla camera della bambina. I muri laterali erano color ruggine. Un'ampia veranda correva lungo tutta la facciata: l'ingresso era una porta-finestra a vetri. Contrariamente al solito, le veneziane erano alzate e Cassie riusciva a scorgere l'interno del soggiorno. Una delle luci era accesa.

Il giardino davanti alla casa era chiaramente destinato alla bambina. Era curatissimo, con l'erba perfettamente tagliata. Sul lato sinistro era installato un piccolo parco giochi, con un'altalena di legno e altri attrezzi. Cassie sapeva che la piccola preferiva dondolarsi sull'altalena guardando verso la strada. Aveva riflettuto spesso sulla cosa, chiedendosi se quell'abitudine fosse un indizio per capire la personalità della bambina.

L'altalena pendeva immobile. Cassie vide un pallone e un carrettino rosso abbandonati sull'erba. Forse il prato era uno dei motivi del trasferimento della famiglia. Anche se Laurel Canyon era una zona abbastanza tranquilla, in nessun quartiere era consigliabile far giocare i propri figli in un giardino vicino alla strada.

Cassie abbassò gli occhi e rilesse l'inserzione.

 

STREPITOSA OFFERTA!

Classica villa in stile California Craftsman del 1931.

2 camere da letto, doppi servizi, soggiorno spazioso, grande prato.

Necessità di vendita immediata causa trasferimento.

Prezzo scontato e trattabile.

 

Cassie aveva notato il cartello IN VENDITA tre settimane prima. La vista aveva scombussolato la sua esistenza, procurandole notti insonni e impedendole di concentrarsi sul lavoro. In quelle tre settimane non aveva venduto una sola macchina all'autosalone.

Per quanto ne sapeva, quella era la prima giornata di visite. Quindi il tono dell'inserzione appariva insolito. Si chiese perché i proprietari fossero così ansiosi di vendere, tanto da essere disposti a trattare il prezzo dopo sole tre settimane.

Esattamente tre minuti dopo le due, una Volvo marrone imboccò il vialetto. Ne scese una donna bionda e snella sui quarantacinque anni, vestita in modo sportivo ma elegante. Cassie si controllò i capelli nello specchietto, portandosi una mano dietro la nuca per fissare con forza la parrucca. Poi scese dalla Porsche e si avvicinò alla donna.

«È lei Laura LeValley?» chiese Cassie, leggendo il nome nella parte inferiore del cartello IN VENDITA.

«Certo. Le interessa la casa?»

«Direi di sì.»

«Bene, possiamo cominciare. Ha una bella macchina, è nuova?»

La donna osservò curiosa la parte anteriore della Porsche, dove si notava l'assenza della targa. Per precauzione Cassie aveva tolto la targa: temeva che l'agente immobiliare potesse annotare il numero per risalire fino a lei. Cassie non poteva permettersi di essere rintracciata: a questo serviva la parrucca.

«L'ho appena comprata, ma è usata. Ha un anno» rispose Cassie.

«È splendida!»

La Boxster sembrava nuova di zecca, in realtà era un'auto pignorata a un cliente in arretrato con i pagamenti. Aveva quasi trentamila miglia sulle spalle, il tettuccio decappottabile lasciava filtrare l'acqua e il lettore CD si inceppava a ogni sobbalzo. Il principale di Cassie, Ray Morales, gliela lasciava usare in attesa che il cliente si rimettesse al passo con le rate; se per la fine del mese non si fosse fatto vivo con i soldi, la macchina sarebbe stata messa in vendita. Cassie era convinta che non avrebbero più avuto un centesimo da quel tipo. Era il tipico scroccone, risultava chiaro dalla sua pratica. Dopo le prime sei rate, pagate in ritardo, aveva saltato i sei versamenti successivi. Ray aveva commesso l'errore di accettare le sue cambiali, benché tutte le società finanziarie della zona si fossero rifiutate di avallarle. Il tipo era riuscito a convincerlo a consegnargli le chiavi dell'auto. Ray si era incazzato di brutto per quella fregatura, andando di persona col carro attrezzi a prelevare la Boxster in un posto sopra Sunset Plaza.

L'agente immobiliare tornò verso la sua auto e prese una cartella dal sedile posteriore, poi si avviò sul vialetto di pietra verso la veranda.

«I proprietari sono in casa?» chiese Cassie.

«In questi casi è meglio che non ci siano. Così gli acquirenti possono dire quello che vogliono senza ferire la sensibilità di nessuno.»

Cassie sorrise educatamente. Arrivarono alla porta d'ingresso e Laura LeValley prese dalla cartella una piccola busta bianca, che conteneva una chiave. Mentre apriva la porta riprese a parlare.

«Lei ha dato un mandato a un'agenzia?»

«No. Al momento mi sto solo guardando intorno.»

«Certo, è sempre utile farsi un'idea di cosa offre il mercato. Attualmente è in proprietà?»

«Scusi?»

«Possiede una casa? Vuole venderla?»

«Oh, no, sono in affitto. Però vorrei comprare una casa, non troppo grande, come questa.»

«Ha bambini?»

«No, sono sola.»

LeValley aprì la porta e attese, giusto per assicurarsi che in casa non ci fosse nessuno. Poi fece cenno a Cassie di entrare.

«Questa abitazione dovrebbe essere perfetta per lei. Due sole camere da letto. Io la trovo una casa deliziosa. Comunque giudicherà da sola.»

La donna posò la cartella. Poi tese la mano a Cassie: «Non ci siamo neanche presentate!».

«Io sono Karen Palty» mormorò Cassie, stringendole la mano.

LeValley estrasse un fascio di opuscoli informativi dell'agenzia e gliene consegnò uno, continuando a parlare.

Di tanto in tanto Cassie annuiva, ma in realtà l'ascoltava appena. Era intenta a osservare attentamente i mobili che arredavano l'interno. Lanciò lunghe occhiate di sbieco alle foto sulle pareti. LeValley la invitò a girare liberamente per casa mentre lei, al tavolo della sala da pranzo, preparava il resto del materiale informativo.

La casa era molto pulita e ordinata. Cassie si chiese se fosse sempre tanto in ordine. Dal corridoio salì la scala che portava al piano superiore. Fece qualche passo nella camera da letto matrimoniale, guardandosi intorno. La stanza aveva un'ampia finestra che dava sul fianco roccioso della collina. LeValley riprese a parlare ad alta voce da sotto, come se sapesse esattamente che cosa stava pensando.

«Gli smottamenti non sono un problema. La collina è di granito. Probabilmente quel dirupo è là fuori da almeno diecimila anni, e mi creda, non ha intenzione di spostarsi. Ma se la proprietà le interessa sul serio, le suggerisco di chiedere un esame geologico. La aiuterà a dormire meglio la notte.»

«È una buona idea» le gridò Cassie dall'alto.

Ormai aveva visto abbastanza. Uscì e attraversò il corridoio fino alla camera della bambina. Anche questa era pulita e ordinata, ma ingombra di animali di peluche, Barbie e altri giocattoli. In un angolo c'era un cavalietto da pittore, con un album aperto su un disegno: raffigurava un autobus scolastico con piccole figure stilizzate ai finestrini, fermo davanti a una stazione dei pompieri. La bambina sapeva disegnare bene.

Cassie controllò il corridoio per accertarsi che LeValley non fosse salita, quindi si avvicinò al cavalietto. Sfogliò l'album. Un altro disegno mostrava una casa con un grande prato verde. Di fronte alla casa c'erano un cartello IN VENDITA e la figura stilizzata di una bambina. Un fumetto dalla bocca della bambina diceva Buu Huu. Cassie lo osservò a lungo, poi ispezionò il resto della stanza.

Sulla parete di sinistra c'era la locandina incorniciata di un film a cartoni animati: La Sirenetta. C'erano anche grandi lettere di legno che formavano il nome JODIE SHAW, ognuna dipinta in un colore diverso.

Cassie rimase immobile al centro della stanza, in silenzio, cercando di assorbire ogni particolare per affidarlo alla memoria. Il suo sguardo cadde su una foto racchiusa in una piccola cornice su una cassettiera bianca. Mostrava una bambina sorridente accanto a Topolino in mezzo a una folla di visitatori, a Disneyland.

«La camera della figlia.»

La voce alle sue spalle la colse di sorpresa, facendola sussultare.

Si girò. Laura LeValley era ferma sulla porta. Cassie non l'aveva sentita salire. Si chiese se all'agente immobiliare fosse venuto qualche sospetto e fosse salita in punta di piedi, per coglierla sul fatto mentre rubava.

«È una bambina adorabile» disse LeValley in tono disinvolto. «L'ho incontrata quando sono venuta a fare l'inventario. Credo che abbia sei o sette anni.»

«Cinque. Quasi sei.»

«Scusi?»

Cassie si affrettò a indicare la foto sulla cassettiera.

«Almeno così sembra. Se la foto è recente.»

Poi sollevò una mano, come per passare in rassegna l'intera stanza.

«Ho anch'io una nipotina di cinque anni. Questa potrebbe essere la sua camera.»

Aspettò in silenzio, ma l'agente non fece altre domande. Cassie sperò di essersela cavata con la scusa della nipotina.

«Bene» disse LeValley. «Ora venga giù a firmare, così avremo il suo nome e il telefono. C'è qualcos'altro che le interessa sapere? Ho con me anche un modulo per un'offerta, nel caso lei sia già pronta a farla.»

Le sorrise con aria d'intesa e Cassie ricambiò il sorriso.

«Non ancora» rispose. «Ma la casa mi piace.»

LeValley tornò verso la scala e scese al pianoterra. Cassie si mosse per seguirla. Mentre oltrepassava la soglia si voltò e diede un'ultima occhiata agli animali di peluche radunati su un ripiano sopra il letto. La bambina doveva avere un debole per i cani. Poi il suo sguardo tornò a posarsi sul disegno sopra il cavalietto.

Giù nel soggiorno LeValley le porse un blocco con un modulo per le firme. Cassie si firmò Karen Palty, il nome di una vecchia amica dei tempi in cui lavorava ai tavoli di blackjack, poi aggiunse un numero telefonico con il prefisso del centro di Hollywood e un indirizzo sulla Nichols Canyon Road. Restituì il modulo a LeValley, che lesse i suoi dati.

«Karen, tenga presente che se questa non è la casa giusta per lei, ce ne sono altre nel canyon che le potrei mostrare con piacere.»

«E una buona idea, però prima mi lasci riflettere su questa.»

«Oh, certo. Mi faccia sapere.»

LeValley le porse un biglietto da visita. Attraverso la vetrata del soggiorno, Cassie notò un'auto che stava parcheggiando dietro la Boxster. Un altro potenziale acquirente. Doveva sbrigarsi a fare le sue domande mentre era ancora sola con l'agente immobiliare.

«L'inserzione sul giornale diceva che gli Shaw hanno fretta di vendere. Posso chiederle come mai? Voglio dire, c'è qualcosa che non va in questo posto?»

A metà della domanda Cassie si accorse di essersi lasciata sfuggire il nome dei proprietari. Poi ricordò le lettere di legno colorate nella camera della bambina e con sollievo capì di avere una buona scusa.

«Oh, no, non ha nulla a che fare con la casa» disse l'altra. «Lui è stato trasferito. Se riescono a vendere in fretta, partiranno tutti insieme, evitando che lui viaggi avanti e indietro dal nuovo posto di lavoro. Si tratta di un viaggio molto lungo.»

Cassie avvertì il bisogno di sedersi, ma rimase immobile. Una sensazione di angoscia le strinse il cuore. Si sforzò di non vacillare, aggrappandosi al caminetto di pietra, ma temeva di non riuscire a mascherare il turbamento.

Si tratta di un viaggio molto lungo.

«Si sente bene?» chiese LeValley.

«Sì. Grazie. Ho avuto l'influenza la scorsa settimana e... mi devo ancora riprendere.»

«Oh, l'ho avuta anch'io qualche settimana fa. È stato orribile.»

Cassie si girò, come per osservare il caminetto.

«Si trasferiscono molto lontano?» chiese con tutta l'indifferenza che le fu possibile simulare.

Chiuse gli occhi e restò in attesa, certa che ormai la donna avesse capito che lei non era lì per la vendita della casa.

«A Parigi. Lui lavora per un'azienda che importa abbigliamento, e gli hanno chiesto di occuparsi degli acquisti sul luogo. Inizialmente avevano pensato di tenere la casa, magari affittandola. Ma poi, realisticamente, hanno capito che con tutta probabilità non torneranno più. Insomma, vanno a Parigi: e chi non vorrebbe viverci?»

Cassie riaprì gli occhi e annuì.

«Parigi...»

LeValley proseguì in tono quasi da cospiratrice.

«Ecco la ragione per cui sono disponibili a trattare. Quindi un'offerta rapida, anche se bassa, potrebbe accelerare i tempi. Vogliono trasferirsi subito anche per far frequentare alla bambina un corso di lingue durante l'estate, così sarà integrata nel nuovo ambiente quando inizierà la scuola.»

Cassie non prestava più attenzione ai discorsi dell'agente immobiliare. Fissava la cavità buia del camino. Chissà quante volte vi era stato acceso un fuoco che aveva riscaldato la casa. Ma in quel momento i mattoni refrattari erano neri e freddi. Le parve di fissare l'interno del proprio cuore.

In quell'istante capì che tutto nella sua vita stava cambiando. Per molto, troppo tempo, aveva vissuto alla giornata evitando di pensare al piano disperato che fluttuava lontano, all'orizzonte della sua vita, come un sogno.

Ma adesso era arrivato il momento di muoversi.

 

2

 

Il lunedì successivo, Cassie arrivò alla Hollywood Porsche alle dieci, come al solito. Passò il resto della mattinata nel piccolo ufficio a lato del salone espositivo, spulciando l'elenco delle chiamate, studiando l'inventario aggiornato, rispondendo alle richieste giunte via Internet e facendo una ricerca in rete per un cliente che chiedeva una Speedster in ottime condizioni. Per la maggior parte del tempo, però, i suoi pensieri continuarono a gravitare intorno a ciò che aveva appreso a Laurel Canyon.

Il lunedì era il giorno più fiacco della settimana. C'era qualche sporadico compratore indeciso e un po' di lavoro accumulatosi nel fine settimana, ma erano ben pochi i clienti davvero interessati. L'autosalone si trovava sul Sunset Boulevard, poco distante dal Cinerama Dome. A volte il lavoro languiva, al punto che Ray Morales non obiettava se Cassie usciva e andava a vedersi un film nel pomeriggio, a patto che portasse con sé il cercapersone per tornare se gli affari cominciavano a muoversi. Ray si era sempre mostrato molto generoso con Cassie, fin dal giorno in cui le aveva offerto quel lavoro, sebbene lei non avesse alle spalle alcuna esperienza nel settore. Il motivo non era esattamente altruistico, lei lo sapeva: era solo questione di tempo, poi le avrebbe chiesto di incassare la contropartita. Comunque era sorpresa che Ray non si fosse ancora fatto avanti, a distanza di dieci mesi.

L'Hollywood Porsche vendeva macchine nuove e usate. In qualità di recluta nella squadra dei sei venditori, a Cassie toccavano i turni del lunedì e tutte le attività collegate a Internet. Queste ultime non le risultavano faticose, perché al Centro di detenzione femminile di High Desert aveva seguito dei corsi di computer, scoprendo che quel modo di lavorare le piaceva. Si era accorta che preferiva trattare con i clienti e gli altri rivenditori usando la rete piuttosto che incontrandoli di persona.

La ricerca in rete di una Speedster con i requisiti richiesti dal cliente ebbe successo. Individuò una decappottabile del '58 in ottime condizioni presso un rivenditore di San José e si accordò per ricevere foto e altri particolari la mattina dopo. Poi lasciò un messaggio per il cliente, dicendo che poteva passare a vedere le foto dell'auto.

L'unico cliente per un giro di prova si presentò poco dopo pranzo. Il cliente era uno dei «miracolati» di Hollywood, così li chiamava Ray.

Ray setacciava religiosamente l'Hollywood Reporter e il Daily Variety alla ricerca di articoli su tutte le nullità che nel giro di una notte erano diventati "qualcuno". Il più delle volte si trattava di scrittori strappati alla loro squattrinata oscurità e resi ricchi - o almeno famosi per un giorno - da un contratto cinematografico per una sceneggiatura tratta da un loro libro. Una volta individuato il bersaglio, Ray rintracciava il suo indirizzo attraverso la Writer's Guild o grazie a un amico del Registro elettorale. Dopo di che incaricava un negozio di fiducia, il Sunset Liquor Deli, di fargli recapitare una bottiglia di Macallan Scotch con un suo biglietto da visita e un messaggio di congratulazioni. In media, sei volte su dieci funzionava: il destinatario reagiva prima con una telefonata, poi con una visita al salone. Possedere una Porsche era quasi un rito d'iniziazione a Hollywood, specialmente per i maschi ambiziosi fra i venti e i trent'anni... Ray passava questi clienti ai suoi venditori, con i quali poi spartiva la commissione nel caso di un'eventuale vendita.

Quel lunedì, il giro di prova in auto era con uno scrittore che aveva appena firmato il suo primo contratto con la Paramount per una cifra impressionante. Ray, sapendo che Cassie non vendeva una macchina da tre settimane, lo aveva passato a lei. Lo scrittore si chiamava Joe Michaels ed era interessato a un'auto Carrera Cabriolet nuova, che su strada sarebbe costata quasi 100.000 dollari. La commissione di Cassie avrebbe coperto le sue spese per un mese.

Imbarcato il passeggero, Cassie imboccò il Nichols Canyon salendo fino a Mulholland Drive, poi diresse la Porsche verso est seguendo la strada serpeggiante. Era il percorso che faceva di solito perché, meglio che altrove, sulla Mulholland auto, potenza e sesso sembravano fondersi in un tutt'uno. Là ogni cliente comprendeva chiaramente che cosa Cassie gli stava vendendo.

A quell'ora non c'era molto traffico. Ad esclusione di occasionali branchi di motociclisti, la strada era tutta per loro. Cassie fece compiere all'auto la solita esibizione, scalando le marce e accelerando in curva. Ogni tanto lanciava un'occhiata a Michaels, per controllare se avesse già stampata in faccia l'espressione di chi è pronto a concludere l'acquisto.

«Adesso sta lavorando a qualche film?» gli chiese.

«Sto riscrivendo il copione di un poliziesco.»

«Chi sono gli attori?»

«Non hanno ancora deciso il cast. Per ora ci stiamo occupando della sceneggiatura. I dialoghi facevano schifo.»

Prima del giro di prova, Cassie aveva letto l'articolo di Variety. Vi si diceva che Michaels si era diplomato da poco alla facoltà di cinematografia della University of South California e che aveva girato un film di quindici minuti aggiudicandosi un premio sponsorizzato da un produttore cinematografico. Dimostrava venticinque anni al massimo. Cassie si chiese dove sarebbe andato a pescare i suoi dialoghi per il film poliziesco. Aveva l'aria di uno che non si era mai imbattuto in uno sbirro in tutta la sua vita e ancor meno in un criminale. Forse avrebbe scopiazzato qualcosa dai telefilm, decise.

«Ha voglia di guidare lei, John?»

«Mi chiamo Joe.»

Ottimo segno. Lo aveva chiamato di proposito con un nome sbagliato, solo per vedere se l'avrebbe corretta. In questo caso, significava che aveva un carattere deciso: bene, perché stava per comprare un'auto che non scherzava quanto a carattere.

«Ah, certo, Joe.»

Cassie parcheggiò nella piazzola panoramica sopra l'Hollywood Boulevard. Spense il motore, tirò il freno a mano e scese. Appoggiò un piede sopra il guardrail, senza voltarsi a guardare Michaels. Si chinò a riannodare il laccio della sua Doc Marten nera, poi guardò in basso verso lo stadio vuoto. Indossava un paio di jeans neri attillati e una tee-shirt bianca senza maniche sotto una camicia di Oxford azzurra sbottonata. Sapeva di fare colpo e il suo radar le diceva che lui stava guardando lei invece della macchina. Si passò le dita fra i capelli biondi, che di recente aveva tagliato corti per poter indossare più facilmente la parrucca. Si girò di scatto e lo sorprese mentre la fissava. Lui distolse rapidamente lo sguardo, fissando i grattacieli del centro affondati in uno smog rosa pastello.

«Allora, che gliene pare?» chiese lei.

«Direi che mi piace» disse Michaels. «Ma bisogna che la provi personalmente per saperlo con certezza.»

Sorrisero entrambi. Stavano indubbiamente procedendo sulla stessa lunghezza d'onda.

«Allora proviamola» rispose lei, badando a sottolineare scherzosamente il doppio senso delle battute.

Tornarono sulla Porsche e Cassie sedette accanto al posto di guida un po' di sbieco, in modo da avere Joe di fronte. Lo guardò sollevare la destra accanto al cambio per cercare le chiavi dell'accensione.

«Sull'altro lato» gli suggerì.

Il cliente trovò le chiavi dell'accensione alla sinistra del volante.

«È una tradizione Porsche» gli spiegò. «È così sin dai tempi in cui fabbricavano auto da corsa. Così si poteva mettere in moto con la sinistra e avere la destra già pronta sul cambio. È un'accensione rapida.»

Michaels annuì. Cassie sapeva che quella storiella faceva effetto sui clienti maschi. Non sapeva se fosse vera - l'aveva ereditata da Ray - ma la raccontava ogni volta. Era certa che Michaels l'avrebbe puntualmente ripetuta a qualche ragazza dolce e carina abbordata davanti ai locali sul Sunset Strip.

Lui mise in moto, fece marcia indietro e si infilò di nuovo su Mulholland, dando sempre troppo gas. Bastarono poche miglia perché imparasse a capire il cambio, affrontando le curve con scioltezza. Cassie lo osservava e lui si sforzò di non sorridere quando, imboccando un rettilineo, il tachimetro raggiunse le settantacinque miglia in pochi secondi, ma un'espressione di piacere si stampò chiaramente sul suo viso. Non riuscì a nasconderla. Era un'espressione che lei conosceva a memoria. Sapeva cosa significava: il giovane sceneggiatore era di quelli che si eccitavano per la velocità e la potenza. Pensò a quanto tempo era passato dall'ultima volta in cui anche lei aveva sentito quel flusso rovente percorrerle il sangue.

 

Cassie infilò la testa nel suo piccolo ufficio per controllare se la segreteria telefonica segnalava messaggi. Nemmeno l'ombra. Proseguì allora attraverso il salone, facendo scorrere un dito sul tettuccio inclinato di una Cabrio del '96, e superò l'ufficio amministrativo per raggiungere quello del capo. Quando vi entrò, Ray Morales sollevò gli occhi dalle scartoffie, poi agganciò sul tabellone le chiavi della Carrera usata per il giro di prova. La fissò, aspettando di sentire com'era andata.

«Vuole rifletterci per un paio di giorni» disse Cassie senza guardarlo. «Devo sentirlo mercoledì.»

Mentre si girava per uscire, Ray lasciò cadere la penna sulla scrivania e spinse indietro lo schienale della poltrona.

«Merda, Cassie, cosa ti succede? Quel tipo era attizzato come un mandrillo. Come hai fatto a lasciartelo sfuggire?»

«Non ho detto che mi è sfuggito» disse Cassie con una nota di protesta troppo alta nella voce. «Ho detto che vuole pensarci. Non tutti comprano dopo il primo giro di prova, Ray. Quella macchina costa un sacco di soldi.»

«I tipi come lui lo fanno. Con le Porsche lo fanno. Non ci pensano sopra, comprano! Dannazione, Cassie, era già in calore quando gli ho parlato al telefono. Lo vedi cosa combini? Secondo me li innervosisci. Dovresti coccolarli come se fossero i prossimi Cecil B. DeMille, e non farli sentire in colpa per le loro ambizioni da stronzi.»

Cassie si piantò le mani sui fianchi con un'espressione indignata.

«Ray, non so di cosa stai parlando. Non li innervosisco di sicuro. E nessuno di questi tipi sa neppure vagamente chi fosse Cecil B. DeMille.»

«Allora diciamo Spielberg, Lucas, chi ti pare. Non me ne frega niente! Il nostro lavoro è un'arte, Cassie. È questo che ho cercato di insegnarti. È finezza, è sesso, devi farglielo diventare duro. Quando sei arrivata qui eri una bomba. Riuscivi a piazzare anche cinque, sei macchine al mese. Adesso, invece, non capisco proprio cosa stai combinando.»

Cassie abbassò per un momento gli occhi sulla scrivania prima di rispondere. Infilò le mani in tasca. Sapeva che Ray aveva ragione.

«Okay, d'accordo. Forse sono un po' fuori fase in questo periodo.»

«Come mai?»

«Non lo so neanch'io esattamente.»

«Vuoi un po' di tempo? Vuoi startene a casa qualche giorno?»

«No, preferisco di no. Domani però farò tardi: devo fare la mia visita con annessa pisciatina a Van Nuys.»

«D'accordo, non è un problema. Come vanno le cose lassù? Quella tipa della sorveglianza non ha più telefonato e non si è fatta vedere.»

«Vanno come devono andare. È probabile che tu non la senta più, a meno che io non faccia qualche cazzata.»

«Bene. Continua così.»

Qualcosa nel suo tono la impensieriva, ma cercò di accantonare il problema. Evitando il suo sguardo osservò le carte sulla scrivania. Notò un rapporto sopra una pila di fogli.

«Sta arrivando un carico?»

Ray seguì il suo sguardo fino al rapporto e annuì.

«Martedì prossimo. Quattro Boxster, tre Carrera... due delle quali Cabrio.»

«Bene. Sai già i colori?»

«Le Carrera sono tutte bianche. Le Boxster invece color ghiaccio, bianco, nero e forse giallo.»

Afferrò il rapporto e lo esaminò.

«Sì, giallo. Sarebbe bello riuscire a piazzarle prima ancora che arrivino. Meehan ha già un impegno per una Cabrio.»

«Vedrò cosa posso fare.»

Lui le strizzò l'occhio e sorrise.

«Così mi piaci.»

Di nuovo quel tono... e la strizzatina d'occhi. Ray si stava infine decidendo a incassare i frutti della sua benevolenza? Probabilmente aveva aspettato che lei incappasse in un brutto momento professionale, così da non lasciarle alternative. Cassie capì che presto sarebbe passato all'azione. Doveva elaborare una strategia per fronteggiarlo. Ma c'erano altre cose ben più importanti nella sua mente. Salutò Ray e tornò verso il suo ufficio.

 

3

 

Gli uffici del Dipartimento degli istituti di pena, libertà su parola e servizi comunitari della California, nel distretto di Van Nuys, erano stipati in un palazzo a un solo piano di calcestruzzo grigio che sorgeva all'ombra del Tribunale municipale. L'aspetto anonimo dell'edificio sembrava in tono con il suo scopo: il reinserimento dei detenuti nella società.

Pareva che il Dipartimento si fosse ispirato ai parchi di divertimento riguardo ai sistemi per controllare i flussi di folla. Ma quelli che stavano in coda all'interno dell'austero edificio, non parevano altrettanto ansiosi di giungere al termine della loro attesa. Un percorso serpeggiante segnato da cordoni conteneva il flusso di ex detenuti nelle sale di attesa e nei corridoi. C'erano code di detenuti in attesa di essere registrati, code in attesa dell'esame delle urine, code in attesa di incontrare gli agenti di sorveglianza per la libertà su parola, code in tutti i settori del palazzo.

Per Cassie Black l'Ufficio della libertà su parola era ancora più deprimente del carcere. All'High Desert si era sentita come un personaggio di un film di fantascienza, dove il viaggio di ritorno sulla Terra è talmente lungo da spingere gli astronauti ad abbandonarsi a una sorta di letargo, di ibernazione. Cassie ricordava così la detenzione: respirava ma non viveva, aspettava e sopravviveva con la speranza che la fine della reclusione prima o poi sarebbe arrivata... meglio prima che poi. La speranza del futuro, il suo sogno di libertà l'avevano aiutata a superare i momenti di depressione. Ma il futuro si era concretizzato nell'Ufficio della libertà su parola, che era squallido, affollato, disumano. Puzzava di disperazione e di sogni infranti. La maggior parte di coloro che attendevano in coda non ce l'avrebbe fatta. Uno alla volta sarebbero tornati in cella. Pochi rigavano dritto, pochi ne uscivano vivi. E per Cassie, che aveva giurato a se stessa di essere uno di quei pochi, l'immersione mensile in quel mondo era sempre causa di una profonda depressione.

Alle dieci di quel martedì mattina aveva già superato il primo controllo e si stava avvicinando al termine della coda per la consueta pisciatina. In mano reggeva il flacone di plastica sul quale avrebbe dovuto accovacciarsi mentre una recluta dell'ufficio - soprannominata "occhio lungo" per la natura del suo compito di sorveglianza - l'avrebbe osservata per assicurarsi che fosse proprio la sua urina a finire nel contenitore per le analisi.

Cassie aspettava il proprio turno, in silenzio, senza guardarsi attorno. Quando la coda si muoveva e lei veniva sospinta in avanti, seguiva semplicemente l'onda. Pensò alla condanna scontata all'High Desert, a come allora riuscisse a spegnere l'interruttore quando necessario e a proseguire con il pilota automatico a bordo dell'astronave che doveva riportarla sulla Terra. Era stato l'unico modo per attraversare illesa quel posto. E quella sorta di letargo era anche il miglior modo per uscire adesso indenne da questo ufficio.

 

Cassie si infilò nel cubicolo che l'agente di sorveglianza, Thelma Kibble, chiamava ufficio. Ora respirava meglio: era arrivata quasi in fondo al viaggio, Thelma era la sua ultima fermata.

«Eccoti qua...» disse Thelma. «Come ti vanno le cose, Cassie Black?»

«Bene, Thelma. E tu come stai?»

Thelma era una nera obesa di cui Cassie non aveva mai cercato di indovinare l'età. Sul suo viso largo c'era sempre un'espressione cordiale e Cassie la trovava sinceramente simpatica, malgrado le circostanze sfavorevoli dei loro incontri. Thelma non era una persona facile ma era onesta. Cassie sapeva di essere stata fortunata quando, dopo il trasferimento dal Nevada, l'avevano assegnata a lei.

«Non mi lamento» rispose Thelma. «Non mi lamento proprio.»

Cassie occupò la sedia accanto alla scrivania sulla quale erano accatastati mucchi di dossier personali, alcuni spessi anche quattro dita. Sul lato sinistro del piano c'era uno schedario verticale etichettato RD che attirava sempre l'attenzione di Cassie. Sapeva che RD significava ritorno alla detenzione: i fascicoli riguardavano i perdenti, quelli che dovevano tornare dentro. Lo schedario sembrava sempre colmo, e vederlo costituiva per Cassie il deterrente più efficace.

Thelma aveva davanti a sé il fascicolo di Cassie e stava compilando i dati per il rapporto mensile. Era il solito rituale: due chiacchiere, poi Thelma avrebbe snocciolato il suo elenco di domande.

«Cosa ti è successo ai capelli?» chiese Thelma senza sollevare gli occhi dalle carte.

«Mi è venuta voglia di cambiare. Li volevo corti.»

«Cambiare? Cos'è, sei talmente annoiata che di colpo decidi di fare dei cambiamenti?»

«No, è solo...»

Terminò la frase con una scrollata di spalle, sperando che l'agente passasse presto a parlare d'altro. Doveva immaginarselo che l'uso del verbo cambiare avrebbe messo una pulce nell'orecchio dell'agente Thelma.

La donna ruotò leggermente il polso e guardò l'orologio. Era ora di procedere.

«La tua urina ci creerà dei problemi?»

«No.»

«Bene. C'è nulla di cui devi parlarmi?»

«No, non credo.»

«Come va il lavoro?»

«Come tutti i lavori, immagino.»

Thelma inarcò le sopracciglia e Cassie rimpianse di non aver risposto con una parola sola. Le aveva messo un'altra pulce nell'orecchio.

«Guidi quelle dannate auto di lusso tutto il giorno» disse Thelma. «Quasi tutti quelli che entrano qui dentro devono accontentarsi di lavarle, macchine come quelle. E loro non si lamentano.»

«Non mi sto lamentando.»

«Allora cosa?»

«Allora niente. Sì, guido auto di lusso. Ma non sono mie. Io le vendo. C'è una bella differenza.»

Thelma sollevò gli occhi dal fascicolo e osservò Cassie per un lungo istante. Il chiasso delle voci che salivano dagli altri cubicoli rimbombava nell'ambiente.

«D'accordo, cosa c'è che ti rode, ragazza? Non ho tempo per le stronzate. Ho casi ben più difficili, e la sola idea di doverti spostare in SS mi fa venire il mal di pancia. Non ho tempo per i tuoi problemi di umore!»

Picchiò una manata sopra un cumulo di spessi fascicoli per ribadire il concetto.

«E scommetto che neanche tu lo vuoi.»

SS era la sigla che stava per stretta sorveglianza. Al momento Cassie era sottoposta a controlli minimi, mentre uno spostamento in SS avrebbe significato convocazioni più frequenti all'ufficio, controlli telefonici quotidiani e visite di Thelma a casa. La libertà su parola si sarebbe così ridotta a una specie di estensione della cella carceraria, e lei sapeva che non avrebbe potuto sopportarlo. Sollevò rapidamente le mani in un gesto di resa per calmare l'agente.

«Scusa, scusa. Non c'è niente che non va, okay? Sto solo passando... sto attraversando uno di quei momenti, capisci?»

«No, non capisco. Di che momenti parli? Spiegami.»

«Non ci riesco. Non so trovare le parole. Mi sento come... è come se ogni giorno fosse uguale al precedente. Non c'è nessun futuro, perché tutto è sempre uguale.»

«Senti, cosa ti ho detto la prima volta che sei entrata qui dentro? Ti ho detto che sarebbe diventato così. La ripetizione genera l'abitudine. L'abitudine è noiosa ma ti tiene lontano dai guai. E tu vuoi restare alla larga dai guai, non è vero, ragazza?»

«Sì, Thelma. Ma a volte è come se mi sentissi ancora là dentro, in carcere. Non è...»

«Non è cosa?»

«Non lo so...»

Ci fu un improvviso trambusto in uno dei cubicoli, dove un detenuto protestava violentemente. Thelma si alzò per guardare oltre la parete divisoria, ma Cassie non si mosse. Non le importava. Sapeva cosa stava succedendo: era qualcuno che veniva preso in custodia e portato in una cella in attesa che gli venisse revocata la libertà su parola. Ogni volta che lei veniva alla convocazione le capitava di assistere a un paio di quei tafferugli. Nessuno tornava mai pacificamente dietro le sbarre. Da parecchio tempo Cassie aveva smesso di farci caso. Fra quelle mura non poteva preoccuparsi per nessuno al di fuori di se stessa.

Dopo qualche secondo Thelma tornò a sedersi e riportò la sua attenzione su Cassie. Lei sperò che l'interruzione avesse fatto scordare all'agente il suo nervosismo, ma quel giorno la fortuna non era dalla sua parte.

«Hai visto quello di là?» chiese Thelma.

«L'ho sentito. Mi è bastato.»

«Lo spero. Perché, al più piccolo passo falso, al suo posto potresti esserci tu. Lo capisci, vero?»

«Perfettamente, Thelma. So cosa mi può succedere.»

«Bene, perché qui non si tratta di problemi esistenziali. La legge ti ha inchiodata, tesoro, e adesso devi rigare dritto. Tu mi preoccupi, ragazza, ma sei tu che dovresti preoccuparti. Sei arrivata solo al decimo mese di una sorveglianza che deve durare due anni. Non è un buon segno vederti così nervosa dopo solo dieci mesi.»

«Lo so. Mi dispiace.»

«Merda, in questa stanza viene gente che sta sotto controllo quattro, cinque e sei anni. Alcuni anche di più.»

Cassie annuì.

«Lo so, lo so. Sono fortunata. È solo che non posso impedirmi di pensare, lo capisci?»

«No, non capisco.»

Thelma incrociò sul petto le braccia massicce e si appoggiò all'indietro. Cassie si chiese se la sedia dell'agente avrebbe retto sotto quel peso. Thelma la fissò con espressione severa e Cassie capì di avere commesso un errore cercando di aprirsi con lei. Ma, dal momento che aveva già oltrepassato la linea della confidenza, decise che poteva anche arrivare fino in fondo.

«Thelma, posso chiederti una cosa?»

«Sono qui per questo.»

«Sai se... se ci sono dei trattati o degli accordi internazionali per i trasferimenti della libertà su parola?»

Thelma socchiuse gli occhi.

«Di cosa diavolo stai parlando?»

«Qualcosa che mi permetta di vivere a Londra o Parigi o in qualche posto del genere...»

Thelma spalancò gli occhi, scrollò la testa e assunse un'espressione sbalordita. Si chinò in avanti e la sedia seguì faticosamente il suo movimento.

«Ti sembro un'agente di viaggi? Tu sei una detenuta, ragazza. Te ne rendi conto? Tu non puoi decidere di punto in bianco che qui non ti piace e dire: "Oh, credo che adesso farò un viaggetto a Parigi." Ma ti accorgi di dire delle cazzate? Questa non è una filiale del Club Med.»

«Okay, volevo solo...»

«Hai ottenuto il trasferimento dal Nevada, sei stata fortunata e devi ringraziare il tuo amico all'autosalone. Ma è tutto. Sei inchiodata qui, ragazza. Almeno per i prossimi quattordici mesi e forse anche di più, se continuerai a comportarti così.»

«D'accordo. Pensavo solo di...»

«Fine della storia.»

«Okay. Fine della storia.»

Thelma si piegò sulla scrivania per scrivere delle note nel fascicolo di Cassie.

«Non so proprio cosa ti passa per la testa» disse mentre scriveva. «Tu lo sai quello che dovrei fare, vero? Dovrei appiopparti un trentacinquantasei per un paio di giorni, per vedere se basta a farti passare certe idee del cazzo. Ma...»

«Non è necessario che tu lo faccia, Thelma. Io...»

«...ma al momento siamo pieni.»

Cassie sapeva fin troppo bene che un 3056 era una detenzione preventiva con la quale si prendeva in custodia il detenuto in libertà condizionata in attesa di un'udienza per la revoca della libertà su parola.

L'agente di sorveglianza poteva poi lasciar cadere la richiesta di revoca al momento dell'udienza. Il detenuto sarebbe stato rimesso in libertà, ma il ritorno dietro le sbarre era sempre un efficace monito per rimettersi sulla retta via. Era la minaccia più forte che Thelma Kibble avesse a sua disposizione, e il solo menzionarla bastò a spaventare Cassie.

«Dico sul serio, Thelma: è tutto a posto, non ti devi preoccupare. Volevo solo sfogarmi un po', okay? Ti prego, non farmi questo.»

Sperò di avere usato una giusta dose di umiltà nel tono di voce.

Thelma scrollò la testa.

«Io so soltanto che eri nella mia lista A, ragazza. Adesso invece non sono più tanto sicura. Forse dovrò venire a controllarti uno di questi giorni, per vedere cosa ti bolle dentro. Te lo dico chiaro e tondo, Cassie Black: farai meglio a stare molto attenta con me. La grassa e vecchia Thelma sa alzare il culo dalla sedia. E non ti conviene cazzeggiare con me. Prova a chiederlo a loro.»

Fece scorrere l'estremità della penna lungo i bordi dei fascicoli RD alla sua sinistra. Ne ottenne un suono ruvido, vagamente inquietante.

«Ti diranno tutti che non mi piace farmi prendere per il culo.»

Cassie si limitò ad annuire. Fissò la donna corpulenta di fronte a lei per un lungo momento. Doveva fare qualcosa per disinnescarla, per farle tornare il sorriso sul volto.

«Puoi venire quando vuoi, Thelma, tanto non avrai sorprese.»

Thelma aguzzò lo sguardo. Cassie notò che il viso si stava rilassando. Thelma ora aveva un'aria divertita. Cominciò perfino a ridacchiare, e questo fece sussultare prima le sue grosse spalle e poi l'intera scrivania.

«Staremo a vedere» disse poi.

 

4

 

Quando lasciò gli uffici del Dipartimento, Cassie sentì un grosso peso scivolarle dalle spalle. Non solo perché era finito il supplizio mensile, ma anche perché là dentro le era sembrato di capire meglio se stessa. Le poche parole scambiate con Thelma erano state sufficienti a mettere a fuoco le sue ansie e a giungere a una conclusione. Ora sapeva cosa doveva fare. La sua decisione era chiara, anche se sensazioni di sollievo e di paura si mescolavano ancora. Era come se un fuoco si fosse acceso dentro di lei e quel lago ghiacciato che per tanto tempo era stato il suo cuore avesse cominciato a sciogliersi.

Si infilò fra il Tribunale municipale e quello della contea e attraversò la piazza che fronteggiava il distretto di polizia di Van Nuys. C'era una fila di telefoni pubblici vicino alle scale che portavano all'ingresso della stazione di polizia. Si avvicinò a uno dei telefoni e staccò il ricevitore, infilò le monete e compose un numero che aveva imparato a memoria più di un anno prima all'High Desert, un numero che in carcere le era arrivato su un bigliettino nascosto dentro un assorbente.

Dopo tre squilli rispose una voce maschile.

«Sì?»

Erano passati sei anni dall'ultima volta in cui Cassie aveva sentito quella voce, ma alle sue orecchie risuonò così nitida e riconoscibile che trattenne il fiato.

«Pronto?»

«Uh, sì... parla... parla D.H. Reilly?»

«No, ha sbagliato numero.»

«Non è Dog House Reilly? Ho chiamato il...»

Abbassò gli occhi e lesse il numero del telefono pubblico dal quale stava chiamando.

«Che razza di nome idiota è questo? Qui non c'è nessun Dog House. Ha sbagliato numero.»

L'uomo riappese e Cassie fece lo stesso. Poi si girò, tornò verso la piazza e sedette su una panchina a pochi metri dai telefoni. Sulla panchina era già seduto un uomo con i vestiti sporchi e i capelli arruffati. Leggeva un giornale talmente ingiallito da far pensare che fosse vecchio di mesi.

Cassie attese quasi quaranta minuti. Quando finalmente il telefono si mise a suonare, il tipo l'aveva ormai coinvolta in una conversazione a senso unico sulla qualità del vitto offerto nelle celle di sicurezza del distretto di Van Nuys. Lei si alzò e raggiunse velocemente il telefono, mentre l'uomo continuava a lamentarsi.

«Salsicce come fottute candeline di compleanno! Là dentro si mangia di merda...»

Cassie sollevò il ricevitore al sesto squillo.

«Leo?»

Una breve pausa.

«Non fare il mio nome. Come stai, dolcezza?»

«Bene. Tu come...»

«Ormai sei fuori da quasi un anno, giusto?»

«Be', in realtà...»

«E per tutto questo tempo non ti sei mai fatta viva, neanche per un salutino. Pensavo di sentirti molto prima. Per tua fortuna mi sono ricordato di quel trucchetto di Dog House Reilly.»

«Dieci mesi. Sono fuori da dieci mesi.»

«E come ti è andata?»

«Non male, direi. Bene, anzi.»

«Ma non del tutto, se adesso mi chiami.»

«Già.»

Seguì un lungo silenzio. Cassie sentiva il rumore del traffico all'altro capo della linea. Immaginò che lui fosse uscito di casa e stesse usando un telefono pubblico da qualche parte lungo il Ventura Boulevard, probabilmente vicino alla tavola calda in cui gli piaceva andare a mangiare.

«Così, per primo hai chiamato me» la sollecitò Leo.

«Esatto. Pensavo...»

Fece una pausa e ripassò mentalmente tutto quanto. Annuì silenziosamente.

«Sì, mi serve un lavoro, Leo.»

«Non fare il mio nome.»

«Scusa» gli disse, sorridendo. Era il solito, vecchio Leo.

«Mi conosci, sono paranoico.»

«Proprio quello che stavo pensando anch'io.»

«D'accordo. Dunque cerchi qualcosa. Vuoi darmi qualche dettaglio? Di cosa stiamo parlando?»

«Contanti. Un solo lavoro.»

«Uno solo?» Sembrò sorpreso e forse addirittura deluso. «Grande quanto?»

«Grande abbastanza per sparire, per ricominciare altrove.»

«Allora non deve andarti molto bene.»

«È solo che stanno accadendo certe cose. Non posso...»

Scrollò la testa senza completare la frase.

«Sei sicura di essere a posto?»

«Sì, sto bene. Anzi, mi sento benissimo, soprattutto adesso che ho deciso.»

«Capisco cosa vuoi dire. Mi ricordo di quando anch'io ho fatto il salto, di quando mi sono detto: "Che cazzo, è questo che voglio fare". E a quell'epoca rubavo solo air bags dalle Chrysler. Ho fatto parecchia strada. L'abbiamo fatta tutti e due.»

Cassie si girò a guardare l'uomo sulla panchina. Stava continuando la sua conversazione da solo. Non gli serviva la presenza di nessuno.

«Lo sai, vero? Se i parametri sono questi, non c'è che Las Vegas. Voglio dire, potrei mandarti giù all'Hollywood Park o a una delle Indian Rooms, ma di contanti ne vedresti pochi. Al massimo quindici, ventimila. Ma se mi lasci un po' di tempo per organizzare le cose a Las Vegas, potrei trovarti il colpo giusto.»

Cassie rifletté un attimo. Quando sei anni prima il furgone carcerario per High Desert aveva lasciato Las Vegas, lei aveva pensato che non avrebbe mai più rimesso piede in quella città. Ma sapeva che Leo aveva ragione: era Las Vegas il posto dove giravano le grosse cifre.

«Vegas mi sta bene» disse bruscamente. «Però non metterci troppo.»

«Chi è che parla dietro di te?»

«Un barbone. Si è fuso il cervello in gabbia.»

«Dove sei?»

«Ho appena lasciato l'ufficio di sorveglianza.»

Leo scoppiò a ridere.

«Non c'è niente come il dover pisciare a comando per far venire voglia di cambiare vita, vero? Senti cosa facciamo: terrò gli occhi aperti. Ho già fiutato qualcosa che potrebbe maturare la prossima settimana. Tu saresti perfetta. Ti farò sapere se la cosa si realizza. Dove posso raggiungerti?»

Gli diede il numero dell'autosalone: il numero principale, non la sua linea diretta né il numero del cellulare. Non voleva che quei numeri gli venissero trovati addosso nel caso di una visita improvvisa degli sbirri.

«Un'altra cosa» disse Cassie. «Puoi ancora procurare dei passaporti?»

«Sì. Ci vogliono due o tre settimane perché me li faccio mandare da fuori, ma posso procurartene uno. E anche di primissima qualità. Mille per un passaporto semplice, duemilacinquecento per un kit completo, che comprende patente, Visa e American Express.»

«Bene. Voglio un kit completo per me e un secondo passaporto.»

«Perché ne vuoi due? Ti dico che il primo sarà perfetto. Non te ne servirà un altro per...»

«Non sono tutti e due per me. Il secondo mi serve per un'altra persona. Vuoi che ti spedisca le foto a casa o hai un recapito sicuro?»

Leo le indicò una casella postale di Burbank e lei scrisse il numero direttamente sulla busta che conteneva già le foto. Leo le chiese per chi fosse il secondo passaporto e a quali nomi volesse intestare i documenti falsi. Prevedendo la domanda, si era già preparata. Aveva anche prelevato dei contanti dal suo conto e si offrì di spedirgli il denaro insieme alle foto, ma Leo rifiutò dicendo che li avrebbe anticipati lui. Aggiunse che era un gesto di buona volontà visto che si stavano rimettendo in affari insieme.

«Bene» disse lui, tornando all'argomento principale. «Sarai pronta per il lavoro? È passato parecchio tempo. La gente si arrugginisce. Se ti spedisco là fuori, anch'io rischio, lo sai.»

«Lo so. Non preoccuparti. Sarò pronta.»

«Okay, allora. Mi farò sentire.»

«Grazie. Ci vediamo.»

«Oh, dolcezza...»

«Cosa?»

«Sono contento che sei tornata. Sarà come ai vecchi tempi.»

«No, Leo. Senza Max non sarà più come ai vecchi tempi.»

Questa volta Leo non protestò per l'uso del suo nome. Riattaccarono insieme e Cassie si allontanò. Il tipo della panchina le gridò qualcosa, ma lei non riuscì a capire che cosa avesse detto.

 

Dovette camminare fino al Victory Boulevard per raggiungere la Boxster. Non aveva potuto parcheggiarla più vicina all'area dei tribunali e degli uffici penali. Lungo la strada lasciò cadere la busta con le foto dentro una cassetta della posta e pensò a Max Freeling. Ricordò i loro ultimi istanti insieme: il bar del Cleo, la schiuma della birra sui suoi baffi, la sottile cicatrice sul mento dove non cresceva la barba.

Con Max aveva fatto un ultimo brindisi, che ora ripeté tra sé.

Alla fine. Al luogo dove il deserto diventa oceano.

Anche se erano passati anni, ripensare a ciò che era successo le provocava una grande tristezza. Decise che prima di tornare al salone sarebbe passata in macchina alla Wonderland Elementary School, approfittando della pausa per il pranzo. Sapeva che era il modo migliore per scacciare i brutti ricordi.

Quando raggiunse la Boxster scoprì che le avevano rifilato una multa perché le due ore del parchimetro erano scadute. Tolse il modulo dal tergicristallo e lo lasciò cadere sul sedile posteriore. L'auto era ancora intestata all'idiota al quale era stata pignorata. Così, al mancato pagamento della multa, quelli del Comune si sarebbero rivolti a lui. Ben gli stava.

Salì in macchina e si allontanò. Percorse il Van Nuys Boulevard verso sud fino alla 101. Su entrambi i lati della strada erano spuntati come funghi nuovi rivenditori di auto. A volte aveva l'impressione che l'intera valle fosse diventata un solo enorme parcheggio.

Cercò di ascoltare un CD di Lucinda Williams, ma l'impianto stereo singhiozzava al punto che dovette estrado e accontentarsi della radio. Trasmettevano una vecchia canzone: Roseanne Cash piangeva un dolore vecchio di sette anni.

Giusto, pensò Cassie. Roseanne sapeva cosa significava una pena d'amore lunga sette anni. Ma la canzone non aggiungeva nulla su quello che succedeva dopo. Non diceva se il dolore se ne andava e Cassie era convinta che il suo non sarebbe mai scomparso.

 

5

 

Nei giorni successivi, mentre aspettava notizie da Leo, Cassie Black ritrovò il vecchio ritmo dei preparativi al colpo. Era un ritmo familiare, confortevole, ma soprattutto eccitante: quei gesti antichi le suscitavano brividi che non provava ormai da molti anni.

Come sempre, prepararsi a un colpo coincideva con un periodo di solitudine e di introspezione. Aveva riflettuto a lungo sulla sua decisione, l'aveva analizzata da ogni punto di vista, ma non aveva trovato incrinature, né avuto ripensamenti o sensi di colpa.

L'ostacolo principale era stato superato prima, nel momento stesso in cui aveva scelto la sua linea d'azione. Ora non provava altro che sollievo e una grande sensazione di libertà. Il gusto del pericolo e quel senso di attesa che negli anni di carcere aveva dovuto soffocare tornavano a eccitarla. Aveva dimenticato quanto potesse dare assuefazione quella carica di adrenalina.

Max la chiamava "la benzina del ladro", perché non riusciva a trovare altre parole per definirla. In quei giorni di preparativi Cassie giunse addirittura a pensare che la vera essenza della carcerazione consistesse nel rimuovere quella carica, nel cancellarla dalla memoria.

Nel suo caso, i cinque anni dietro le sbarre avevano però fallito il loro scopo. Sentiva l'eccitazione ribollirle di nuovo nel sangue come una forza troppo a lungo repressa.

 

Ridusse drasticamente le ore di sonno, concentrandole verso il mattino. Compensò la diminuzione del riposo con un regime altamente energetico e sporadici sonnellini nel tardo pomeriggio sul divano del soggiorno. Nel giro di una settimana passò da sette a quattro ore di sonno per notte senza effetti apparenti sulla sua prontezza e produttività.

Di notte cominciò a fare lunghi giri in auto lungo le curve pericolose di Mulholland Drive per affinare i riflessi. Tornata a casa si muoveva a luci spente nelle stanze per adattare la vista ai contorni delle ombre notturne. Sapeva che al momento buono avrebbe potuto ricorrere agli occhiali a infrarossi, ma preferiva sentirsi pronta per ogni evenienza.

Di giorno, quando non lavorava all'autosalone, costruiva gli strumenti che le sarebbero serviti per il colpo. Compilò meticolosamente un elenco di tutto ciò che le serviva, lo memorizzò e quindi distrusse la lista: se l'avessero trovata in suo possesso la libertà su parola le sarebbe stata immediatamente revocata. Trascorse un'intera giornata passando da un negozio all'altro per procurarsi tutto, comperando rigorosamente in contanti in diverse zone della città, in modo che fosse impossibile far risalire i suoi acquisti a un unico progetto.

Comprò cacciaviti, lime da ferro, lame da seghetti, martelli, filo metallico da imballaggio, corde di nylon intrecciato e cinghie elastiche. A questo aggiunse una confezione di guanti in lattice, un tubetto di cera antiscivolo, un temperino a più lame e una spatola da stucco larga otto centimetri. Si procurò una piccola torcia ad acetilene e fece il giro di tre negozi di ferramenta prima di trovare un trapano piccolo, con batterie ricaricabili. Comprò pinze con le punte rivestite di gomma, pinze tagliafili e cesoie per alluminio. Aggiunse agli acquisti una Polaroid e la metà superiore di una muta subacquea da uomo, a maniche lunghe, e non dimenticò torce grandi e piccole, un paio di ginocchiere protettive da piastrellista e uno storditore elettrico. Comprò uno zaino di pelle nera, una cintura nera con scomparti e parecchie buste anch'esse nere con cerniera, di diverse misure, che, ripiegate, si potevano infilare in una delle tasche dello zaino. Infine, in ognuno dei negozi acquistò un lucchetto a combinazione, accumulando un totale di sette lucchetti fabbricati da ditte diverse con meccanismi di blocco differenti.

Nel piccolo bungalow che aveva affittato a Hollywood, sulla Selma vicino alla Freeway 101, sparse gli acquisti sul ripiano di formica della cucina e cominciò a preparare l'attrezzatura, manovrando ogni singolo pezzo con i guanti.

Con le cesoie e la torcia ad acetilene trasformò il filo da imballaggio e le lame da seghetti in minuscoli grimaldelli per serrature. Preparò due set identici di tre grimaldelli; una punta a tensione, un gancio e un tumbler, un sottile cilindretto piatto. Infilò un set in una busta a chiusura ermetica e la seppellì in giardino vicino alla porta sul retro. L'altra serie la mise da parte con gli attrezzi necessari al lavoro che Leo le avrebbe procurato.

Tagliò metà di una manica dalla muta da sub e vi avvolse il trapano, cucendo saldamente con del filo di nylon i bordi della gomma in modo da soffocare ogni rumore. Con il resto della muta confezionò una sacca rotonda con cui avrebbe potuto trasportare altrettanto silenziosamente gli arnesi da scasso.

Dispose con cura gli attrezzi nella sacca, la arrotolò, la chiuse con una cinghia elastica e la nascose all'interno del paraurti anteriore destro della Boxster, fissandola ai montanti delle sospensioni con un'altra cinghia. Era stata bene attenta a non seminare impronte. Se mai la sacca con gli arnesi fosse stata scoperta da Thelma Kibble o qualche altro agente di polizia, Cassie avrebbe potuto dichiararsi all'oscuro di tutto con un certo grado di credibilità, evitando un ritorno dietro le sbarre. L'auto non era sua, non c'erano impronte e non esistevano prove che lei avesse acquistato o fabbricato l'attrezzatura. Potevano fermarla e interrogarla quanto volevano, ma alla fine avrebbero dovuto rilasciarla.

I sette lucchetti servirono a Cassie per esercitarsi. Li agganciò intorno all'asta di legno di un appendiabiti e infilò le chiavi dentro una tazza da caffè in un armadietto della cucina. Di notte si metteva a sedere nel soggiorno e nel buio più assoluto tentava di aprire i lucchetti con i grimaldelli. Lentamente le sue dita cominciarono a ricordare tutti i movimenti impercettibili che potevano aprire qualsiasi serratura. Impiegò quattro giorni per far scattare i sette lucchetti. Li richiuse e ricominciò da capo, stavolta con i guanti. Nel giro di due settimane, cronometrandosi regolarmente, riuscì ad aprire tutti i sette lucchetti in dodici minuti.

Sapeva che quegli esercizi erano anche una preparazione mentale: ritrovava il ritmo, il giusto atteggiamento psicologico. Max le aveva insegnato che il ritmo era la cosa più importante da imparare. Sapeva che difficilmente avrebbe dovuto scassinare una serratura durante il lavoro che Leo le stava procurando. Negli ultimi dieci anni, quasi tutti gli alberghi di Las Vegas avevano sostituito le chiavi con tessere magnetiche. Forzare una protezione di quel genere era una faccenda completamente diversa: di solito richiedeva dei complici all'interno oppure l'abilità di ottenere l'aiuto di ignari portieri o cameriere ingenue.

E mentre si dedicava a questi delicati preparativi, riaffiorava il ricordo di Max, il suo maestro e il suo amante. Erano ricordi dolci e amari: non poteva ripensare a quei tempi felici senza rivedere l'ultimo tragico giorno al Cleopatra, il giorno in cui tutto era finito. Eppure, spesso si ritrovava anche a ridere forte, nell'oscurità della casa, con l'asta dell'appendiabiti piena di lucchetti in grembo e le mani sudate dentro i guanti di lattice.

Le tornò in mente quella volta al Golden Nugget, in cui Max aveva dato prova delle sue straordinarie capacità di improvvisazione. Dovevano entrare in una camera del quinto piano: notando il carrello di una cameriera notturna in fondo al corridoio, Max si era infilato in uno sgabuzzino di servizio, spogliandosi nudo. Poi si era spettinato i capelli e aveva percorso il corridoio fino al carrello della cameriera coprendosi i genitali con le mani. La donna aveva fatto un salto, spaventata, e lui le aveva spiegato con finta ingenuità che stava dormendo e si era alzato per andare in bagno. Nella confusione del risveglio aveva imboccato la porta sbagliata, e si era ritrovato chiuso fuori. Imbarazzata da quell'incontro con un uomo completamente nudo, la cameriera del piano gli aveva prestato il suo passepartout.

Ciò che rendeva la storia ancor più divertente era che, una volta entrato nella camera, per non insospettire la cameriera Max aveva dovuto rivestirsi prima di ripresentarsi a restituirle la chiave. Ma i suoi abiti erano nascosti nello sgabuzzino in fondo al corridoio, così aveva dovuto indossare qualche capo di abbigliamento della vittima del colpo. L'uomo era un po' più basso di Max e più magro, pesava almeno venticinque chili di meno ed era un gay dichiarato. Max aveva dovuto dunque tornare dalla cameriera in fondo al corridoio indossando una camicia rosa aperta fino all'ombelico e un paio di pantaloni neri di pelle che gli sembravano cuciti addosso.

Ogni notte, terminati gli esercizi, Cassie tornava a seppellire i grimaldelli nel giardino e sistemava un pesante giaccone invernale sopra l'appendiabiti con i lucchetti, chiudendo poi la cerniera del giaccone per nascondere i lucchetti e riponendo il tutto nell'armadio a muro. Sapeva che Thelma Kibble poteva mettere in atto la sua minaccia, ma per ora nulla faceva pensare che la stesse effettivamente controllando. Non aveva fatto neppure una telefonata a Ray Morales per controllare il comportamento di Cassie sul lavoro. Cassie pensò che avesse altro cui pensare. Malgrado il tono del loro ultimo colloquio, probabilmente Thelma aveva decine di casi da seguire che meritavano più attenzione.

 

In attesa della chiamata di Leo, Cassie non abbandonò comunque alcune sue abitudini. Ogni mattina andava a correre all'Hollywood Reservoir, dove faceva il giro del lago artificiale attraversando due volte la Mulholland Dam. Quella corsa era una penitenza per espiare uno dei suoi riti mattutini: la fermata al Farmer's Market sulla Fairfax per comprare ciambelle e caffè da Bob's. Si portava la colazione in macchina e saliva poi lungo le colline del Laurel Canyon sino a fermarsi, se trovava da parcheggiare, a ridosso del cortile recintato della Wonderland Elementary School.

Gustando le ciambelle glassate e sorseggiando il caffè nero fumante, rimaneva a osservare i bambini che scendevano dalle auto dei genitori e giocavano nel cortile in attesa della campanella che segnalava l'inizio delle lezioni. I suoi occhi scrutavano attentamente l'area di gioco fino a quando identificava il gruppetto delle bambine dell'asilo, di solito raccolte intorno alla maestra, una donna dall'aria disponibile e gentile. Ogni mattina lo sguardo di Cassie passava in rassegna il gruppo alla ricerca dello stesso volto: la bambina con lo zainetto che aveva stampato un sole sorridente, con la scritta Buona Giornata. Restava a guardarla, guidata dallo zainetto con il sole giallo che sussultava mentre lei si muoveva in mezzo al gruppo. Non la perdeva di vista un solo istante, fino a che la campanella suonava e i bambini si dirigevano verso le aule. Solo allora accartocciava il sacchetto delle ciambelle e metteva in moto l'auto per raggiungere il bacino della diga, dove avrebbe corso spremendo il fisico e la mente fin quasi all'esaurimento. Solo allora la sua giornata lavorativa poteva cominciare.

 

6

 

Erano trascorse due settimane dalla telefonata a Leo, quando Cassie Black ricevette finalmente la chiamata che aspettava. Era seduta nel suo ufficio a controllare i conti di alcune permute con Ray Morales, quando sentì il proprio nome all'altoparlante del salone: una chiamata sulla linea uno. Con la mente ancora occupata dai conteggi, afferrò il telefono e pigiò il pulsante della linea uno senza pensarci troppo.

«Parla Cassie Black, può aspettare un attimo in linea?»

«Certo.»

Riconobbe subito la voce. Fece una pausa e sentì un gelo scorrerle lungo la schiena. Premette il pulsante di attesa, mentre un'eccitazione quasi palpabile le colmava il petto.

«Tutto a posto?» chiese Morales.

«Sì, certo. Ma devo prendere la telefonata.»

«Fai pure.»

«Voglio dire: da sola. È personale.»

«Oh... d'accordo.»

Ray sembrò un po' deluso e forse anche infastidito. Per lui, probabilmente, personale voleva dire la telefonata di un nuovo boyfriend.

Due giorni prima Cassie aveva respinto gentilmente un suo invito a cena dopo il lavoro. Si era deciso troppo tardi. Cassie non voleva complicazioni. Tra l'altro, se la faccenda fosse andata come lei sperava, forse gli avrebbe fatto anche un favore non coinvolgendolo. Non avrebbe avuto segreti da nascondere quando gli sbirri fossero venuti a interrogarlo.

Ray disse a Cassie che l'avrebbe trovato nel suo ufficio per finire il controllo dei conti. Poi uscì e si chiuse la porta alle spalle senza che Cassie dovesse chiederglielo. Lei si sporse in avanti per osservare oltre il bordo della scrivania la fessura sotto la porta. Un'ombra le disse che Ray era fermo là fuori a origliare.

«Ray?»

Lui non rispose ma Cassie vide l'ombra allontanarsi. Sbloccò dunque il pulsante di attesa sul telefono.

«Pronto.»

«Ehi, sei andata a fare un giro di prova o che cosa?»

«Scusa.»

«Be', ho qualcosa per te.»

Cassie non rispose subito. Sentì l'adrenalina che le pulsava nel sangue; le pareva di trovarsi sul ciglio di uno strapiombo. Era il momento di spiccare il salto. Ora o mai più...

Leo ruppe quel silenzio, spezzando l'incantesimo.

«Però non so se ti piacerà.»

Cassie deglutì il nodo che aveva in gola.

«Perché?»

«Ne parliamo quando ci vediamo.»

«Quando e dove?»

«Basta che tu venga qui. Ma fai in fretta. Vieni stasera, o domani mattina. Bisogna decidere entro domani sera, altrimenti lo perdiamo.»

«D'accordo, vengo stasera dopo il lavoro. Stai sempre al solito posto?»

«Sì. Un'ultima cosa. Adesso accendo il registratore sulla segreteria per avere su nastro quello che dirai. Ragazza, lo sai che ti voglio bene, ma è passato tanto tempo. Non sentirti offesa, perché si tratta solo di una precauzione. Dopo le varie Linda Tripp e Monica Lewinsky, qui in giro è diventata una pratica comune. Dunque, al momento stai lavorando per conto di qualche organo di polizia statale o governativo?»

«Leo...»

«Non fare il mio nome. Rispondi solo alla domanda. Mi dispiace, ma è una precauzione che devo prendere. Ormai da queste parti si tendono trappole a ogni angolo di strada.»

«No, Leo, come ti viene in mente? Se avessi voluto incastrarti l'avrei fatto prima di versare il mio obolo all'High Desert. A quell'epoca mi stavano addosso tutti perché parlassi. Ma non l'ho fatto.»

«Questo lo so e tu sai che l'ho apprezzato. Non mi sono forse preso cura di te quando ho potuto? Ricordi quello sbirro privato che hai voluto assumere... mi è costato cinque bigliettoni, sai?»

«È vero, Leo. Non lo dimenticherò.»

«Vorrei che tu la smettessi di fare il mio nome.»

«Scusami.»

«Okay, può bastare. Ho spento il registratore. Allora si parte. Ci vediamo più tardi...»

«Hai i passaporti?»

Una pausa.

«Non ancora. Appena esco chiamo per sollecitarli. Okay?»

«Okay, ma guarda che ne ho davvero bisogno. E presto.»

«Va bene. Allora, a fra poco. Prendi le solite precauzioni.»

Dopo aver riagganciato, Cassie spostò lo sguardo sulla parete accanto alla porta. I suoi occhi fissarono il poster attaccato con nastro adesivo proprio di fronte a lei. Mostrava una donna in tanga che passeggiava sorridente su una spiaggia inondata di sole. Sulla sabbia alle sue spalle, subito sopra la linea della risacca dell'oceano, campeggiava la scritta TAHITI!

«Al luogo dove il deserto diventa oceano» disse Cassie ad alta voce.

 

7

 

Guidò in direzione ovest sul Sunset, con la capote della Porsche abbassata. Amava le vibrazioni del motore che si riverberavano sul sedile e i profondi toni gutturali che l'auto emetteva nelle curve. Al Beverly Glen voltò verso nord e seguì la strada serpeggiante che dal canyon superava le colline scendendo poi nella valle.

Leo Renfro viveva a Tarzana, nella piana a nord del Ventura Boulevard, poco lontano dalla Freeway 101. La casa era un piccolo ranch postbellico senza una vera personalità o uno stile architettonico definito. Era del tutto simile alle altre case del quartiere, proprio come Leo voleva. Lui preferiva vivere nell'anonimato, confondersi nella normalità.

Passò davanti senza rallentare e percorse in entrambi i sensi le strade circostanti, osservando ogni veicolo fermo alla ricerca di indizi che potessero rivelare un mezzo di sorveglianza, un furgone con finestrini a specchio, un'auto con più di un'antenna, un pickup con il pianale coperto... Un solo veicolo attirò la sua attenzione. Era il furgone di un idraulico, stando all'insegna dipinta sopra una fiancata. Era parcheggiato accanto al marciapiede a poca distanza dalla casa di Leo. Cassie lo oltrepassò senza fermarsi, poi invertì la marcia e tornò indietro, parcheggiando a mezzo isolato dal veicolo. Rimase seduta, tenendo d'occhio il furgone in attesa di qualche movimento dietro i finestrini, o di uno spostamento delle sospensioni che rivelasse qualcuno al suo interno. Non notò nulla di sospetto ma continuò a osservarlo per almeno dieci minuti. Infine vide un uomo in tuta blu uscire dalla casa di fronte, avvicinarsi al furgone, aprire il portellone laterale e salire. Pochi istanti dopo posò sull'asfalto un pesante attrezzo per curvare i tubi. Poi scese, chiuse a chiave il portellone e spinse lo strumento verso la casa dalla quale era uscito. Doveva essere veramente un idraulico. Cassie riawiò la Porsche, fece un altro giro nel quartiere e infine tornò verso la casa di Leo. Si fermò lungo il marciapiede pensando che non doveva farsi suggestionare dalle paranoie di Leo. Si ricordava il lungo elenco di regole e di precauzioni superstiziose che di solito snocciolava a lei e Max prima di un colpo: non scommettere mai sul nero, non mangiare pollo, non portare un cappello o un berretto rosso, eccetera, all'infinito. A Cassie erano sempre sembrate tutte stronzate.

Poi c'era stata quell'ultima notte, al Cleopatra.

Quando arrivò alla porta d'ingresso, Cassie sollevò lo sguardo verso le travi sottili che reggevano la tettoia e vide la vecchia e minuscola telecamera ancora al suo posto. Si chiese se funzionasse ancora ed ebbe subito la risposta poiché Leo aprì la porta prima ancora che lei bussasse. Gli sorrise.

«Così, funziona ancora.»

«Certo che funziona. Ormai è lassù da quanto, otto anni? La tipa che l'ha installata me l'ha garantita a vita e io le ho creduto. Sapeva quello che faceva.»

Anche lui sorrise.

«Come stai, Cassie? Dai, entra.»

Fece un passo indietro per lasciarla passare. Leo Renfro aveva superato da poco i quaranta, era di corporatura media e con un corpo asciutto. Aveva i capelli radi e grigi. Erano già grigi quando Cassie lo aveva conosciuto, dieci anni prima. Secondo lui, si erano precocemente ingrigiti perché aveva dovuto diventare adulto troppo in fretta. In pratica era stato lui a crescere Max, il suo fratellastro, dopo che la loro madre era morta in un incidente, mentre guidava in stato di ubriachezza. Non si sapeva chi fosse il padre di Leo, ma quello di Max era ancora rinchiuso nel carcere statale del Nevada, dove scontava una condanna a venticinque anni per rapina a mano armata.

Cassie entrò in casa e Leo la strinse in un rapido e brusco abbraccio. Lei ne provò piacere. Era rassicurante, come tornare a casa.

«Ciao, bambina» disse lui con tono serio ma affettuoso.

«Leo» disse Cassie, poi si scostò con espressione preoccupata. «Adesso posso dire il tuo nome, vero?»

Lui scoppiò a ridere e le indicò il retro della casa, precedendola verso quello che lei ricordava essere il suo ufficio: una stanza rivestita di legno a lato della piscina.

«Sembri in forma, Cassie. Davvero. Stai bene coi capelli corti. È un ricordo dell'High Desert? È vero quello che ho sentito dire sui tosapecore che lavorano lassù?»

Le strizzò l'occhio.

«Anche tu sembri in forma, Leo. Sempre lo stesso.»

Lui si girò di nuovo a guardarla e sorrisero entrambi. Erano anni che Cassie non lo vedeva, ma Leo era davvero cambiato pochissimo. Forse aveva un po' meno capelli, ma era sempre molto abbronzato e ancora snello. Probabilmente continuava a praticare yoga e a fare le sue nuotate mattutine.

Nel soggiorno girarono intorno a un divano messo ad angolo invece che di fronte al camino. Quella strana disposizione spinse Cassie a guardarsi intorno, e notò così che tutti i mobili nella stanza erano collocati in modo assurdo, come se il camino - il fulcro più importante del soggiorno - non esistesse neppure.

«Ricordami di chiederti il nome del tuo arredatore prima di andarmene» gli disse. «Che razza di stile è questo... contraddizione postmoderna?»

«Eh, lo so. Ho appena dato un tocco di Feng Shui alla casa e questo è il meglio che sono riuscito a combinare. Per il momento, almeno.»

«Feng cosa?»

«Feng Shui: l'arte cinese della disposizione armonica.»

«Oh.»

Le sembrò di aver letto qualcosa in proposito. Doveva essere l'ultima moda fra gli illuminati di Los Angeles.

«Questo posto è condannato» le disse Leo. «Brutte vibrazioni da ogni parte. Dovrei proprio andarmene di qui. Ma ormai ci vivo da tanto tempo, ho la piscina a portata di mano e tutto il resto. L'idea di trasferirmi mi preoccupa.»

Arrivarono all'ufficio. La scrivania di Leo era a un'estremità della stanza, accanto alla porta finestra scorrevole che dava sulla piscina. Allineate lungo la parete opposta c'erano decine di casse di champagne. Vedere quella pila di casse provocò un attimo di esitazione in Cassie. In passato, il Leo Renfro che aveva conosciuto e per il quale aveva lavorato non avrebbe mai conservato refurtiva in casa sua. Lui era un intermediario che si limitava a organizzare le operazioni e prendeva poi accordi per smistare il frutto dei colpi. Ma non entrava mai in contatto ravvicinato con la merce, a meno che si trattasse di contanti. La vista della scorta di champagne nel suo ufficio fece sorgere a Cassie dei dubbi. Forse le cose erano cambiate, dopo la vicenda di Max. Si fermò sulla soglia dell'ufficio quasi timorosa di entrare.

Leo andò dietro la scrivania e si girò a guardarla. Non si sedette.

«Cosa c'è?» le chiese.

Indicò le file di casse che coprivano un'intera parete. Dovevano essere almeno una cinquantina.

«Leo, non hai mai tenuto refurtiva in casa. Non solo è pericoloso, ma stupido. Tu...»

«Rilassati, è tutto perfettamente legale. L'ho comprato... ordinandolo direttamente al distributore. È una specie di investimento.»

«In che senso?»

«Per il futuro. Guardati intorno. I festeggiamenti per la fine del Duemila prosciugheranno le scorte di champagne. Il valore di quello che resta salirà alle stelle e io ne approfitterò. Ogni dannato ristorante della città dovrà rivolgersi al sottoscritto. Dovresti vedere il mio garage. Ho accumulato cinquecento casse di questa roba. Seimila bottiglie in tutto. Mi basta raddoppiare il prezzo che ho pagato all'ingrosso e porterò a casa almeno duecentomila dollari. Vuoi entrare anche tu nell'affare? Ho altri investitori.»

Cassie si avvicinò alla vetrata a guardare la superficie scintillante della piscina. Era illuminata dal fondo e sfavillava come un neon azzurro nella notte.

«Non posso permettermelo.»

Vide l'aspiratore automatico che si muoveva lentamente sul fondo della piscina, con il tubo di filtraggio che lo seguiva come una coda e il sacco dei rifiuti aspirati che galleggiava a pelo d'acqua, simile a un fantasma.

Si sentiva il rumore di fondo della vicina freeway: era lo stesso della sua casa di Hollywood. Per un istante si chiese se fosse una coincidenza che entrambi vivessero in case così vicine alla freeway. Oppure era una scelta che accomunava tutti i ladri, per avere una via di fuga a portata di mano.

«Dopo questo lavoretto potrai entrare anche tu nell'affare» disse Leo. «Dai, accomodati.»

Si sedette e aprì il cassetto centrale della scrivania. Ne tolse un paio di occhiali da lettura e li infilò. C'era una cartella appoggiata sulla scrivania. Leo aveva tutta l'aria di un uomo d'affari. Sembrava che si stesse preparando a esaminare la cartella delle tasse di un cliente, non a fornire i particolari di un colpo. In realtà aveva studiato contabilità alla UCLA, fino a quando non si era reso conto che preferiva maneggiare denaro proprio, non quello degli altri.

Cassie prese posto sulla poltroncina di pelle imbottita di fronte alla scrivania. Guardando in alto vide una sfilza di monete di colore rosso che penzolavano dal soffitto proprio sopra la scrivania. Leo colse la sua occhiata e liquidò le monete con un gesto della mano.

«Questa è la cura, il rimedio.»

«La cura per cosa?»

«Per il Feng Shui. Sono monete I-Ching. Bilanciano la mancanza di armonia. Per questo le tengo appese qui. Il posto dove lavoro è il più importante di tutta la casa.»

Indicò la cartella posata sulla scrivania.

«Leo, sei sempre stato fissato, ma adesso forse esageri.»

«Io ci credo, funziona. E un'altra cosa che funziona sono le stelle. Ora, prima di fare un piano, consulto sempre le stelle.»

«Non mi stai certo ispirando fiducia. Vuoi dire che adesso chiedi a qualche astrologo la benedizione per un colpo? Leo, non ti...»

«Non ne parlo con nessuno. Lo faccio da solo. Vedi?»

Si girò per indicare una fila di volumi stretti fra due ferma-libri sulla credenza alle sue spalle. Avevano titoli di genere astrologico. Uno era Calendario lunare e un altro Investire nelle stelle.

«Un tempo citavi il tuo nonno ebreo che diceva cose del tipo: "Mai raccogliere un penny se la testa è finita in basso". Tutto sommato era meglio.»

«Ci credo ancora. Diciamo che credo in tutto quanto. L'importante è credere. Io credo in queste cose, e ciò mi aiuta a raggiungere i risultati che mi pongo.»

Cassie pensò che soltanto in California poteva esistere una filosofia simile.

«Il bello è proprio questo: che sono protetto da tutte le parti. "Prendi al volo tutti i vantaggi, da qualunque parte provengano". Max lo diceva sempre, ricordi?» le spiegò Leo.

Cassie annuì con espressione cupa.

«Me lo ricordo.»

Ci fu un momento di silenzio, pieno di tristezza. Cassie guardò fuori, verso la piscina. Ricordò una notte in cui aveva nuotato con Max, convinta che Leo stesse dormendo. Poi la luce della piscina si era accesa ed erano stati sorpresi nudi.

Riportò lo sguardo su Leo.

Aveva aperto la cartella sulla scrivania. All'interno c'erano una mazzetta di biglietti da cento dollari alta mezzo centimetro e un foglio giallo strappato da un blocco per appunti: era pieno di note scritte con una grafia minuta e precisa ma del tutto indecifrabile. Un'altra delle precauzioni di Leo: prendeva sempre appunti in un linguaggio in codice che solo lui conosceva.

«Allora, da dove comincio?» le disse come soprappensiero.

«Comincia dal motivo per cui hai detto che questo lavoro non mi sarebbe piaciuto.»

Leo si appoggiò all'indietro e la osservò per un lungo istante.

«Allora?» chiese infine Cassie. «Vuoi dirmelo oppure è scritto nelle stelle e devo leggerlo lassù?»

Lui ignorò la punzecchiatura.

«Il lavoro è a Las Vegas, una città da cui ti ho già messa in guardia. Però c'è in ballo un mucchio di contante, a quanto mi dicono. È un lavoro a contratto e...»

«Con chi?»

«Altra gente. Questo è tutto quanto devi sapere. Ognuno ha il suo ruolo. Nessuno conosce tutti gli altri, nemmeno io. C'è un tizio sul posto che tiene d'occhio la situazione, ma è soltanto una voce al telefono che mi comunica come procedono le cose. Non ho idea di chi sia. Lui non mi ha mai visto e non sa niente di te. Capisci? In questo modo è più sicuro. Ogni giocatore ha in mano pezzi diversi dello stesso puzzle. Solo che nessuno vede l'intero incastro, ma solo il pezzo che ha in mano.»

«Questo mi sta bene, Leo, ma io non sto parlando dei giocatori di seconda fila. Tu sai chi ha ideato il lavoro, vero?»

«Sì, li conosco. Ho già fatto affari con loro in passato. È gente in gamba. Anzi, meglio: sono degli investitori.»

Indicò la parete di casse di champagne.

«Okay» disse Cassie. «Se tu garantisci per loro... Cos'altro c'è che non mi dovrebbe piacere in questo lavoro?»

«Cos'altro? Be'... stiamo parlando del Cleopatra.»

«Cristo santo!»

«Lo so, lo so...»

Lui alzò le mani in segno di resa. Poi si appoggiò nuovamente all'indietro sulla poltroncina, si tolse gli occhiali, infilò l'estremità ricurva di una stanghetta all'angolo della bocca e li lasciò penzolare.

«Leo, al di là del fatto che si tratta di Las Vegas, ti aspetti che io torni là dentro, dopo quello che è successo?»

«Be', certo...»

«Non rimetterò mai più piede in quel maledetto posto.»

«Ti capisco.»

Cassie si alzò e andò a piantarsi con il viso a pochi centimetri dalla vetrata. Guardò di nuovo la piscina. L'aspiratore continuava a muoversi: avanti e indietro, avanti e indietro...

Le parve di vedere la sua vita.

Leo si infilò di nuovo gli occhiali e le parlò in tono calmo, misurato.

«Posso spiegarti?»

Lei gli fece segno di proseguire, ma senza voltarsi a guardarlo.

«Okay, cerchiamo di riassumere la faccenda. Sei stata tu a chiamare, non io. Tu mi hai chiesto di procurarti un lavoro. Hai detto che lo volevi grosso e che lo volevi presto. E che lo volevi in contanti. Dico bene?»

Aspettò una risposta, ma lei non aprì bocca.

«Prenderò il tuo silenzio come un sì. Ebbene, Cassie, questo è il lavoro che cercavi.»

Lei finalmente si girò.

«Ma non avevo detto...»

Lui sollevò una mano per interromperla.

«Lasciami finire. È solo una proposta. Se il lavoro non ti interessa, d'accordo. Farò qualche telefonata e troverò qualcun altro. Ma tu, ragazza, sei il migliore topo d'albergo che io abbia mai incontrato. Sei una vera artista, se mai ne ho conosciuta una. Anche Max lo riconosceva. Il maestro era lui, ma tu l'hai superato. Così, quando quei tipi sono venuti da me e mi hanno parlato di questa idea, ho cominciato a pensare che era proprio il tuo genere di lavoro. Però, intendiamoci bene, io non voglio obbligarti. Quando salterà fuori qualcos'altro, ti chiamerò comunque. Non so quando succederà, ma tu sarai ancora la prima della mia lista. Resterai sempre la prima, Cassie. Sempre.»

Lei tornò lentamente alla sua poltrona e si sedette.

«L'artista sei tu, Leo. L'artista delle stronzate. Questo discorsetto è il tuo modo per dire che devo accettare, non è così?»

«Questo non l'ho detto.»

«Non è necessario. Tu, Leo, puoi anche credere alle stelle e alle monete I-Ching e a tutti i tuoi segni, ma l'unica cosa alla quale io devo credere è che in quel posto, quella notte... non lo so, forse c'era un fantasma o qualche entità misteriosa che si è messa in mezzo. Una maledizione su di noi o su quel posto. E da sei anni continuo a ripetermi che riguardava il posto. E adesso tu... tu mi chiedi di tornarci.»

Leo richiuse la cartella. Cassie vide sparire la mazzetta di banconote.

«Io non voglio niente. Sei tu che devi scegliere. Ma adesso devo mettermi al telefono, Cass. Bisogna che trovi qualcun altro questa notte stessa, perché il lavoro è per domani. Sembra che il nostro bersaglio voglia lasciare l'albergo giovedì mattina.»

Cassie annuì, con l'orribile sensazione che se ora passava la mano non ci sarebbe stata più un'altra occasione. Leo non si sarebbe più fidato di lei. Nella sua mente balenò l'immagine di una spiaggia assolata con la risacca spumosa che saliva a cancellare delle lettere tracciate sulla sabbia. La scritta spariva prima che Cassie riuscisse a leggerla, ma lei sapeva cosa diceva: coraggio, buttati.

«Quale sarà la mia parte se accetto?»

Leo la fissò esitante.

«Sei sicura di volerlo sapere?»

Cassie annuì. Lui aprì di nuovo la cartella e da sotto la mazzetta sfilò il foglio giallo. Parlò con gli occhi chini sui suoi misteriosi appunti in codice.

«Okay, l'accordo è questo. Noi prendiamo i primi centomila e il quaranta per cento del resto. Stanno sorvegliando il tipo. Pensano che abbia almeno cinquecentomila dollari, tutti in contanti e in una valigetta. Se i conti sono esatti, a noi ne spettano duecentosessanta. Io e te divideremo a sessanta e quaranta, con la fetta maggiore per te, che dunque arriveresti a più di centocinquanta. Non so se ti basteranno per sparire in modo definitivo, ma è una partenza in grande stile. Niente male per una notte di lavoro.»

Alzò gli occhi a guardarla.

«Niente male neanche per loro. Duecentoquarantamila dollari senza fare niente.»

«Non è vero. Hanno trovato il bersaglio. È la cosa più importante. Hanno anche qualcuno all'interno che ti faciliterà parecchio le cose.»

Fece una pausa per lasciare che le cifre e le informazioni facessero il loro effetto.

«Cosa ne dici?»

Cassie rifletteva.

«Non sai quando potrebbe esserci un altro lavoro, vero?»

«E come faccio a saperlo? Al momento è tutto quello che ho. Ma onestamente dubito che il prossimo possa essere così ricco. Probabilmente ci vorrebbero due, tre lavoretti per mettere insieme un malloppo simile. Questo è il colpo grosso, quello che volevi.»

Si appoggiò all'indietro e rimase a guardarla sopra il bordo delle lenti, in attesa. Doveva ammettere che Leo aveva giocato benissimo le sue carte. Le aveva dato lenza perché potesse prendere il largo, ma adesso la stava tirando lentamente a riva. E lei aveva abboccato. Un lavoro con un potenziale guadagno superiore ai centocinquantamila dollari non si presentava spesso. Il massimo che lei e Max avevano incassato in un colpo solo erano stati i sessantamila dollari soffiati a un segretario del sultano del Brunei. Per il sultano erano spiccioli, ma lei e Max avevano festeggiato fino all'alba all'Aces and Eights Club di North Vegas.

«D'accordo» gli disse finalmente. «Mi interessa. Parliamone.»

 

8

 

Leo si appoggiò al piano di lavoro su cui stava trafficando e parlò senza più guardare né i suoi appunti né Cassie.

«Il nostro uomo è registrato sotto il nome di Diego Hernandez. È un giocatore professionista, un texano di Houston di origine ispanica. La sua specialità è il baccarat. Per quanto ne sappiamo, gioca pulito. È solo maledettamente in gamba. Si ferma pochi giorni in ogni singolo casinò e poi si sposta, così non alleggerisce troppo un solo locale e nessuno se la prende più di tanto. Hanno seguito le sue mosse dal Nugget allo Stardust e adesso al Cleo. Ha praticamente ripulito ogni tavolo dove ha giocato.»

Erano in cucina. Cassie sedeva al tavolo mentre Leo, davanti al ripiano, preparava per entrambi sandwich con banana, miele e burro di arachidi. Era una delle sue specialità, e usava esclusivamente pane ai sette cereali.

«Ogni notte incassa la sua vincita che ripone in una valigetta. Se lascia l'edificio la porta con sé, legata al polso con una catenella. L'unico momento in cui non se la tira dietro è quando gioca, giù al casinò. La consegna al banco dell'ingresso e se la fa custodire in cassaforte, poi la riprende quando torna in camera. Ogni volta che trasporta la valigetta si fa accompagnare da qualcuno della sicurezza. Non vuole correre rischi.»

«Quindi stai dicendo che l'unico momento per prenderla è mentre dorme.»

«Esatto.»

Leo si avvicinò al tavolo e posò i due piatti con i sandwich. Poi andò al frigorifero e tornò con due bottiglie di soda. Sedette e aprì le bottiglie continuando a parlare.

«È probabile che in camera trasferisca i contanti dalla valigetta alla cassaforte, contenuta nell'armadio a muro, come ulteriore precauzione. Non è detto, ma è una possibilità... Vuoi un bicchiere?»

«No. Che modello di cassaforte usano nelle camere? Non me lo ricordo bene.»

Leo abbassò gli occhi e ispezionò gli appunti.

«È una Halsey Executive a cinque pulsanti. È sotto gli appendiabiti, imbullonata al pavimento. È impossibile spostarla. Bisogna entrare e aprirla... mentre il tizio è in camera.»

Cassie annuì e prese un mezzo sandwich. Leo li aveva tagliati a triangolo. Faceva così da sempre, e Cassie ricordò che una volta si era arrabbiato quando lei gli aveva preparato un sandwich tagliandolo nel senso della lunghezza. Assaggiò un boccone e sorrise.

«Gesù!» esclamò con la bocca piena. «Avevo dimenticato quanto sono buoni, Leo. Sono uguali a quelli che preparavi a me e Max quando arrivavamo qui dopo un colpo con una notte di guida alle spalle.»

«Glieli preparavo sin da quando aveva sei anni. Erano i suoi preferiti.»

Quei ricordi spensero subito il sorriso di Cassie, che preferì tornare a concentrarsi sul nuovo colpo.

«Le Halsey hanno una piccola tastiera frontale. Posso farcela con una minicamera... o due per maggiore sicurezza, se ci sarà tempo. Dovrò scoprire anche se quel tizio è mancino. Mi basterà vederlo in sala.»

Parlava soprattutto per se stessa. Visualizzava il lavoro nella sua mente.

«Hai chiesto al tuo contatto di che colore sono le pareti?» gli chiese.

Leo annuì.

«Caffelatte. La camera viene ridipinta spesso, perché è una stanza per fumatori. Il nostro tipo fuma sigari.»

«Questo ci aiuterà per l'odore.»

Memorizzò il colore della vernice. Decise che in mattinata, prima di partire, ne avrebbe comperato un barattolo insieme a uno spruzzatore.

«Mi hanno detto che è un ciccione» disse Leo. «Inoltre, è uno che russa: un fatto che dovrebbe rendere le cose un po' più facili.»

«Niente è facile, Leo. Tantomeno a Las Vegas.»

Ripensò al Cleopatra e un brutto presentimento la assalì.

«Se parte giovedì, perché non aspettiamo di vedere dove va a finire? Perché fare il colpo proprio al Cleo?»

«Perché non sappiamo se andrà in qualche altro albergo. Potrebbe anche tornarsene nel Texas. Magari ha la valigetta piena e ha deciso di tornarsene a casa. E poi, il mio contatto è all'interno del Cleo.»

Cassie annuì. Sapeva che Leo aveva già pensato a tutto e aveva deciso che il colpo al Cleo era l'unico modo per mettere le mani sulla valigetta.

«Ho letto che il Cleo è in vendita» disse lei, come per distogliere la mente da quello che la preoccupava.

«Già, tremila camere e ogni notte almeno la metà sono vuote. È un gigantesco elefante, costruito sette anni fa ma già in vendita. Ho sentito che Steve Wynn è andato a dare un'occhiata ma poi ha passato la mano. Deve esserci qualcosa di storto là dentro se nemmeno lui ha visto un modo per rilanciarlo. E dire che quello che tocca, di solito diventa oro.»

«Forse il posto non si è mai liberato della cattiva pubblicità... Sai, dopo il fatto di Max.»

Leo scosse la testa.

«Storia vecchia. Il guaio è che lo hanno costruito in economia come il cesso di una casa di campagna e adesso cade già a pezzi. Per questo nessuno vuole andarci. Ci sono troppi altri posti di lusso sulla strada dei casinò, e alla stessa cifra. Adesso c'è il Bellagio, il Venetian... e il Mandalay Bay è giusto in fondo alla strada.»

Stava nominando posti che l'ultima volta in cui Cassie era stata a Las Vegas nemmeno esistevano. Lei finì il primo sandwich e attaccò subito il secondo dopo aver bevuto una sorsata di soda fredda dalla bottiglia. Tornò quindi a discutere del piano, parlando con la bocca piena.

«Se le cose non sono cambiate, il Cleo lavora con serrature a schede magnetiche. Questo vuol dire che domani dovrò arrivare là presto per lavorarmi la cameriera del piano. Trovato il modo di entrare nella stanza, preparerò ogni cosa e poi tornerò di notte passando per i condotti dell'aria condizionata... come l'ultima volta.»

Inghiottì un boccone e lo sentì piombare giù quasi con un tonfo.

«Forse hanno cambiato la disposizione dei condotti dopo che io e Max li abbiamo usati.»

Guardò Leo. Lui la fissava da sopra gli occhiali sorridente.

«Cosa c'è?» gli chiese.

«Non mi hai ascoltato» disse lui. «Ti ho detto che il mio contatto è uno che lavora al Cleo. Scordati i condotti. E anche la cameriera. Niente manovre sociali stavolta. Troverai una busta in attesa per te al banco dei VIP.»

Abbassò gli occhi sugli appunti.

«Sotto il nome Turcello. Avrai tutto quello che ti...»

«Perché Turcello? Chi sarebbe?»

«Sei tu. Cosa ti importa il perché? È solo il nome che mi ha dato il mio tizio. Nel pacchetto ci sarà tutto quello che ti serve. Entrerai in camera dalla porta perché avrai un passepartout. E avrai una camera a tuo nome lì vicino, così potrai appostarti e sorvegliare la scena. Avrai anche un cercapersone, con cui riceverai un segnale non appena il tuo bersaglio comincerà a incassare le sue vincite.»

«Il passepartout risolve solo in parte il problema. Dovrò sostituire il fermo del chiavistello. È passato tanto tempo che non ricordo più la marca. Hai...»

«Ce l'ho qui. Rilassati. Te l'ho detto, abbiamo tutto il necessario. Non siamo dei dilettanti.»

Consultò gli appunti.

«La serratura è una Smithson Commercial. La stessa dell'ultima volta. È un problema?»

«Non lo saprò finché non sarò sul posto. Come hai detto tu, costruendo il Cleo hanno fatto economie, soprattutto nei dettagli che sfuggono all'occhio dei clienti. Per esempio, hanno applicato solo metà meccanismo nei chiavistelli. Probabilmente, dovendo montare tremila serrature, in questo modo hanno risparmiato una bella sommetta. Il problema è se nel frattempo ci hanno ripensato e sostituito tutte le serrature dopo la notte di Max.»

«E se per caso lo hanno fatto?»

«Allora è un guaio. Dovrò estrarre l'intero meccanismo e tagliarlo in due.»

«In camera?»

«No. Dovrei uscire per fare il lavoro e poi tornare a rimontarlo. Porterò con me una fiamma ossidrica e la lascerò nel baule della macchina. Ma se dovrò usarla, bisogna anche che trovi un angolo riparato. Nel frattempo, il tipo potrebbe però salire in camera e mandare a monte tutto quanto.»

«E l'altra camera? Potresti andare lì a fare il lavoro per poi rimontare la serratura manomessa.»

Prima che Cassie potesse dargli ragione, Leo liquidò comunque con una scrollata di spalle la possibilità che le serrature fossero state cambiate.

«Dammi retta, non perderci il sonno. Quel posto ha cominciato a perdere soldi il giorno stesso in cui lo hanno aperto. Non hanno certo sostituito tremila serrature soltanto perché un tizio - che in ogni caso non poteva più rifarlo - ne aveva scassinata una. Lascia perdere.»

«Per te è facile: tu rimarrai qui.»

Leo non replicò e infilò una mano nella cartella. Tirò fuori la mazzetta di banconote, che posò accanto al piatto di Cassie.

«I nostri soci sono persone serie. Sanno che certe attrezzature costano. Qui ci sono diecimila dollari, per le microcamere e tutto il resto.»

«Ne ho già spesi quasi novecento.»

«Permettimi di chiederti una cosa: quanto sei aggiornata sulle novità in fatto di microcamere e roba simile? Sai esattamente cosa ti serve?»

«Andrò a trovare il mio solito commesso da Hooten's. Spero sia sempre là. È passato parecchio tempo.»

«Puoi ben dirlo.»

«Se non c'è, andrò in un Radio Shack. A ogni modo, mi sono tenuta al corrente e saprò far funzionare tutto, Leo. Non devi preoccuparti per questo.»

Lui la osservò di nuovo da sopra gli occhiali.

«Adesso puoi dirmi cos'è successo, Cass? Perché hai aspettato tanto prima di chiamarmi? Ormai non speravo più che ti facessi viva.»

«Non lo so, Leo. Forse all'inizio ho solo pensato che potevo fare un tentativo, capisci?»

«Già, volevi provare la retta via» commentò Leo annuendo. «Ma non era fatta per te.»

«E un giorno è cambiato tutto.»

«Allora, bentornata fra noi. Potresti esserci molto utile da questa parte della barricata.»

Le sorrise, ma Cassie scosse la testa.

«Leo, per me si tratta di un colpo solo. Dico sul serio. Non voglio entrare a far parte della tua squadra. Dopo ho intenzione di sparire.»

Sapeva che il denaro del colpo non sarebbe bastato. Pur essendo una bella cifra, rappresentava solo la partenza. Ma era tutto quello che voleva: la possibilità di un nuovo inizio.

Leo annuì e chinò gli occhi sul foglio giallo degli appunti.

«Be', questo colpetto dovrebbe comunque consentirti di raggiungere il posto dove hai intenzione di andare.»

«Hai fatto quella telefonata per i passaporti?»

Leo sollevò gli occhi senza alzare il viso.

«Sì. Mi hanno detto che sono già per strada. Controllerò la casella più tardi. Preferisco andarci quando l'agenzia postale è chiusa.»

«Bene. Grazie ancora.»

«Di niente. Voglio che tu possa raggiungere la tua meta, qualunque sia, Cassie.»

Lei raccolse il denaro e si alzò.

«È meglio che mi metta in moto, visto che il gran giorno è domani. Devo...»

«Aspetta. Un'ultima cosa. È importante.»

Leo spinse di lato il piatto anche se il suo secondo sandwich era ancora intatto. Dalla tasca posteriore dei pantaloni tirò fuori un'agendina. Aveva le dimensioni di un libretto di assegni ma più spessa. Tolse l'elastico che la chiudeva e l'aprì a una pagina segnata con un Post-it rosa. Cassie vide che era il calendario del mese in corso. Molti dei riquadri che suddividevano i giorni erano riempiti dalla minuscola grafia in stampatello di Leo. Lui fece scorrere un dito sulla pagina finché non trovò quello che cercava. Parlò senza distogliere gli occhi dall'agendina.

«Voglio che tu mi prometta di fare una cosa, quando sarai là.»

«D'accordo. Cosa?»

«Promettimelo.»

«Non ho intenzione di promettere niente finché non so di cosa parli. Di cosa si tratta, Leo?»

«Okay, ecco qui. Qualunque cosa succeda, non devi trovarti nella camera di quel tipo fra le tre e ventidue e le tre e trentotto. Capito? Parliamo della notte fra mercoledì e giovedì. Scrivitelo, se hai paura di dimenticarlo.»

Cassie sentì un sorriso fra il divertito e il perplesso che le stirava le labbra.

«Vuoi spiegarmi...»

«È la luna nera, il vuoto di luna.»

«Vuoto di luna...»

«Questo è il mio calendario astrologico, okay? Studiando su quei libri che ti ho mostrato in ufficio, seguo le posizioni dei corpi celesti, luna compresa.»

«Va bene, così segui gli spostamenti della luna. Che cos'è un vuoto di luna?»

«È una situazione astrologica. Vedi, quando la luna si muove da una casa all'altra lassù fra le costellazioni, a volte non si trova in nessuna casa. Quando questo succede significa che è priva di direzione, finché finalmente non entra in una casa. È una luna vuota, detta anche luna nera. E, come ti ho detto, nella notte fra mercoledì e giovedì ci sarà una luna nera per quei sedici minuti. Lassù, fra il Cancro e il Leone, ci sarà un vuoto di luna dalle tre e ventidue fino alle tre e trentotto. Ho calcolato tutto.»

Richiuse l'agendina e la sollevò verso di lei come se fosse un oggetto sacro.

«E allora?» gli chiese Cassie.

«E allora... sarà un momento sfavorevole, Cass. Con una luna nera può succedere qualunque cosa, qualunque cosa brutta. Cerca dunque di non agire durante quei sedici minuti.»

Cassie lo osservò per qualche istante, e dalla sua espressione capì che era totalmente sincero. Leo era sempre stato un fervido seguace di tutto ciò in cui decideva di credere.

«Sarà dura» disse lei. «Tutto dipenderà da quando il nostro uomo deciderà di mollare. Dovrò aspettare almeno due ore perché si addormenti sul serio. Due ore come minimo.»

«Allora entra dopo il vuoto di luna. Non sto dicendo cazzate, Cass. Lo sapevi che Lincoln, McKinley e Kennedy hanno iniziato i loro mandati durante una luna nera? Tutti e tre, e pensa a quello che gli è successo. È successo anche a Clinton, e da come gli sono andate le cose, può ancora dirsi fortunato.»

Leo annuì con aria seria e sollevò di nuovo l'agendina come se da sola costituisse una prova delle sue argomentazioni. Per Cassie c'era qualcosa di tenero e di incomprensibile in quella sua fiducia cieca nei segni astrali. Forse se ne sentiva affascinata proprio perché lei faceva molta fatica a credere in qualcosa.

«Dico sul serio» insistette Leo. «Puoi controllare anche tu questo calcolo all'indietro, fino alla data che preferisci.»

Cassie fece un passo verso la scrivania e allungò una mano verso l'agendina. Ma mentre Leo gliela porgeva, lei ritirò la mano. C'era qualcosa che avrebbe voluto chiedergli, ma non era sicura di voler conoscere la risposta.

Leo capì al volo e annuì con aria cupa.

«Sì» disse. «Ho controllato. Quella notte di sei anni fa con Max: anche quella volta c'era la luna nera.»

Lei lo fissò in silenzio.

«Ricordi quello che hai detto prima, sul fatto della maledizione? Era la luna nera, Cass. Era lei la iettatura.»

 

Sulla porta Leo le augurò buona fortuna e aggiunse che si sarebbero rivisti a colpo finito. Scendendo i gradini Cassie esitò. Quel discorso sul vuoto di luna aveva steso un velo tenebroso su ogni cosa. Piegò le spalle come se fosse stata investita da un improvviso vento gelido.

«Cosa c'è?» chiese Leo.

Lei scosse la testa come per sorvolare sulla domanda e subito dopo formulò la sua.

«Leo, tu ci pensi a Max?»

Non le rispose subito. Superò con un passo la soglia di casa e sollevò gli occhi verso il cielo notturno. La luna era pallida e spiccava nella volta celeste simile a un uovo.

«Fra un paio di giorni sarà piena. Grossa e splendente.»

Continuò a fissare la luna per qualche istante, poi abbassò gli occhi su Cassie.

«Non passa giorno senza che ci pensi» le disse. «Non un solo giorno.»

Cassie annuì.

«Mi manca ancora tanto, Leo.»

«Anche a me, Cass. Quindi stai attenta. Non voglio perdere anche te allo stesso modo.»

 

9

 

Era il mezzogiorno di mercoledì, e dopo un paio di soste per comperare la pittura e gli ultimi attrezzi, Cassie Black stava attraversando il deserto. Il sole scintillava sulla carrozzeria d'argento della Porsche e onde di calore si levavano dall'asfalto. Benché la highway fosse poco trafficata e l'auto fosse in grado di tenere una velocità di crociera di oltre centottanta all'ora, Cassie procedeva lentamente. Le dispiaceva tenere a freno il suo cavallo di razza, ma aveva un valido motivo per procedere con assoluta prudenza. Nell'istante stesso in cui aveva superato il confine della Contea di Los Angeles, Cassie aveva infatti violato le condizioni della libertà su parola. La benché minima infrazione per eccesso di velocità le sarebbe costata la carcerazione immediata.

Appena superato il confine di contea si era resa pienamente conto che la posta era alta, che ormai era in gioco la sua stessa vita. Era stata rilasciata sulla parola dopo cinque anni di carcere con una condanna da sette a dodici anni per omicidio colposo. Se ora la beccavano, tornava dentro per almeno altri due anni, se non di più.

Aveva infilato nello stereo un CD di Lucinda Williams. Per fortuna l'asfalto liscio della highway, che evitava i sobbalzi, le permetteva di ascoltarlo. Le piaceva lo spirito ribelle di quei brani, quell'inquietudine particolare che Lucinda comunicava in ogni sua canzone. Ce n'era una che le faceva venire le lacrime agli occhi: parlava di un amante perduto che era tornato a Lake Charles per morire.

 

Forse un angelo ti ha sussurrato all'orecchio,

ti ha stretto a sé e ti ha tolto ogni paura

in quei lunghi, ultimi momenti.

 

Cassie sperava con tutto il cuore che anche Max fosse stato consolato da un angelo in quei suoi lunghi, ultimi momenti.

 

Verso le tre del pomeriggio, i profili dei casinò le apparvero nitidi all'orizzonte. Avvertì un inconfondibile senso di eccitazione mista ad ansia. Per molti anni si era illusa di non dover mai più rivedere i luoghi in cui era cresciuta, dove aveva conosciuto Max e vissuto con lui. Credeva di essersi lasciata Las Vegas alle spalle definitivamente. Tornarci ora la costringeva a pensare al passato, ai dolori, ai rimpianti e agli spettri che la ossessionavano. Ma non poteva fare a meno di meravigliarsi di fronte alla genialità spettacolare di quel luogo. Se mai qualcosa era stato creato dal nulla, questo era Las Vegas.

Procedendo lungo lo Strip scoprì che molte cose erano cambiate durante la sua assenza. In ogni isolato sorgeva un nuovo albergo dotato di sale da gioco, monumenti all'avidità e all'eccesso. Passò davanti a un fasullo profilo di New York, quello del colossale MGM Grand. Notò il nuovo Bellagio e le copie della torre Eiffel e della piazza San Marco di Venezia. Famose località europee che lei non aveva mai visitato, ma adesso eccole là, sullo Strip di Las Vegas. Le tornarono in mente le parole di Max: «Tutti quelli che prima o poi arrivano a Las Vegas, non hanno più motivo di andarsene perché qui trovano tutto».

Giunta all'altezza del Cleopatra, la sua attenzione fu subito attratta dalle torri affiancate del Tigri e dell'Eufrate. I suoi occhi risalirono la facciata a specchi dell'Eufrate e si fermarono per un istante su una finestra, quella finestra. Quindi il suo sguardo ridiscese i venti piani della torre, verso il corpo architettonico triangolare di cristallo che a pianoterra ospitava l'enorme casinò. Il riflesso del sole faceva riverberare come un diamante il fianco della costruzione di vetri a specchio. Il Cleopatra era situato a un centinaio di metri dallo Strip; percorrendo il viale di accesso, il visitatore passava tra una serie di fontane scintillanti a diversi livelli da cui si sollevavano getti d'acqua in una coreografica danza di zampilli. Incastonate nello scintillio delle vasche c'erano statue di bambini che giocavano, tutte di un candore abbacinante... e tutte sotto l'occhio benevolo di Cleopatra, che occupava il trono sul bordo della vasca più alta. Alle sue spalle, nel disegno moderno della facciata era incorporato un motivo decorativo egiziano.

Cassie passò davanti all'hotel e aspettò in coda di girare sulla Flamingo, che portava nella periferia industriale sul lato ovest della città. Non riusciva a impedirsi di pensare a Max, al tempo in cui avevano vissuto insieme, alla fine di tutto... Non aveva previsto che il ritorno a Las Vegas avrebbe suscitato in lei un tale rimpianto, un dolore così bruciante. Il panorama della città era mutevole come sempre, reinventato di continuo, e lei non si aspettava che un posto del genere potesse celare una carica di nostalgia tanto profonda. Invece c'era e si faceva sentire. Dopo Max non era più stata con un uomo, ed era sicura che sarebbe stato così anche in futuro. Forse, pensò, quel dolore era tutto ciò che le rimaneva. Forse non le restava che sprofondarci dentro. Ma poi ricordò che c'era dell'altro: c'era il suo piano, che si profilava all'orizzonte.

 

La Hooten's Lighting & Supplies si trovava in un complesso industriale nei pressi di un tratto sopraelevato della highway. Ormai era là da quasi quarant'anni, anche se con il tempo la sua mercanzia era cambiata parecchio. Originariamente fornitore all'ingrosso di lampade e materiale elettrico per i casinò, l'azienda aveva progressivamente spostato la sua sfera commerciale nel campo dell'elettronica. Ora la HLS costruiva e vendeva buona parte dei sofisticati impianti di sorveglianza usati nei casinò del Nevada come pure nelle sale da gioco delle riserve indiane dell'Ovest.

Ciò che i tecnici della HLS e i responsabili dei casinò non sapevano, era che all'interno della compagnia esisteva almeno una persona disposta a rendere accessibile - per una cifra adeguata - la loro tecnologia a quanti intendevano raggirare i sistemi di sicurezza installati dalla stessa azienda.

Cassie parcheggiò la Boxster nell'area sul retro, dove gli addetti alle installazioni lasciavano i loro camioncini di notte, ed entrò dalla porta posteriore. Appena superata la soglia rimase immobile qualche istante per permettere agli occhi di abituarsi alla penombra dell'interno. Poi scrutò il bancone che correva lungo l'intero lato destro della sala di esposizione e vendita. Dietro il banco c'erano alcuni impiegati alle prese con clienti o occupati al telefono. Quasi tutti tenevano davanti a sé copie aperte del voluminoso catalogo HLS e compilavano ordini. Cassie notò che il posto non era cambiato molto. Sulla parete dietro il bancone campeggiava ancora lo stesso slogan di sette anni prima.

 

IN DIO CONFIDIAMO

TUTTI GLI ALTRI LI SORVEGLIAMO

 

Cassie impiegò pochi secondi per individuare Jersey Paltz. Era al telefono, all'estremità più lontana del banco. Adesso aveva la barba e i capelli grigi, ma portava sempre la coda di cavallo e un cerchietto d'argento come orecchino. Era proprio lui.

Paltz riattaccò proprio mentre Cassie si avvicinava al banco, ma non alzò gli occhi verso di lei. Continuò a scrivere sul registro delle ordinazioni. Leggendo le parole rovesciate, Cassie vide che era un ordine del Tropicana. Gli si rivolse mentre lui stava ancora scrivendo.

«Allora, Jersey, sei così occupato che non saluti una vecchia amica?»

Paltz terminò la riga e poi guardò in su sorridendo. Ma il sorriso vacillò un poco quando la riconobbe.

«Cassie Black?»

Cassie annuì e sorrise.

«Ehi, ragazza, è passato parecchio tempo. Quando sei... Uh...»

«Dieci mesi fa. Ma non sono tornata da queste parti. Dopo l'High Desert mi sono trasferita in California. Mi piace laggiù. Dove vivo adesso la temperatura fa brutti scherzi solo un paio di volte l'anno.»

Paltz annuì ma con una punta di esitazione. Cassie gli leggeva nel pensiero: lui aveva capito benissimo che non era tornata per rinnovare una vecchia amicizia. In realtà, fra loro due non c'era mai stato altro che qualche rapporto di affari. Cassie si guardò intorno per accertarsi che orecchie indiscrete non potessero udire la loro conversazione e si chinò sul bancone, con i gomiti piantati sul catalogo aperto.

«Mi serve un pacco. Dotazione completa, almeno tre videocamere, di cui una con visione verde.»

Paltz si infilò dietro l'orecchio la penna e scosse la testa una volta sola, senza guardarla.

«Mi servono pure un paio di NVGS e un nastro Conduct-O» aggiunse Cassie. «Venendo qui mi sono fermata a un Radio Shack ma il nastro non lo vendono più. Il resto degli arnesi li ho già.»

«Be', credo che ci sia qualche problema» disse Paltz.

«Per gli occhiali notturni o il nastro?»

«No, per tutto quanto. Noi non... cioè, non voglio essere coinvolto in questo genere di...»

«Ascolta, Jersey. Non pensi che se volevo incastrarti l'avrei fatto sei anni fa? Mi avrebbe fatto parecchio comodo. Voglio dire, all'epoca Max e io ti abbiamo fatto guadagnare un bel mucchio di soldi. Questo te lo ricordi, vero?»

Lui annuì con un solo cenno del capo, riluttante.

«È solo che adesso in questa città le cose sono diverse. Se sgarri di un pelo ti piombano addosso. E ti piombano addosso sul serio, credimi.»

Cassie si raddrizzò.

«Di questo non devi convincere me. E tantomeno Max.»

«Scusami. Lo so.»

Lui fece un altro cenno di assenso e posò le mani sul banco.

«Allora cosa decidi, Jersey? Ho i contanti e sono pronta ad aprire le danze.»

Con indifferenza spostò lo zainetto sotto il braccio e lo aprì, facendo intravedere la mazzetta di biglietti da cento consegnatale da Leo. Sapeva che nel mondo criminale la lealtà e la fiducia sono una cosa, ma la vista dei contanti un'altra.

«Devo saperlo adesso, perché se non vuoi aiutarmi dovrò cercare qualcun altro.»

Paltz annuì. Cassie capì che il denaro lo aveva convinto.

«Va bene» disse lui. «Forse posso darti una mano. Quali sono i tempi?»

«Subito, Jersey. Stanotte. Io sono qui. Ho un lavoro da fare.»

Lui sollevò lo sguardo tenendo le mani aperte sul banco. I suoi occhi sbirciarono intorno per garantirsi che nessuno li osservasse.

«D'accordo... Io smonto alle cinque. Che ne dici di vederci all'Aces and Eights alle sei?»

«Quella vecchia topaia è ancora aperta?»

«Oh, sì. Sempre.»

«Ci vediamo là alle sei.»

Cassie fece per allontanarsi dal bancone ma Paltz fece un fischio appena udibile e lei si voltò di nuovo verso di lui. Paltz si tolse la penna da dietro l'orecchio e scrisse qualcosa su un taccuino. Ne strappò il foglietto e glielo allungò.

«Dovrai avere questi con te.»

Lei prese il foglietto e lo guardò. C'era un prezzo.

 

$ 8.500

 

Piuttosto caro, il fornitore. Si era tenuta abbastanza informata sulla tecnologia attuale per sapere che il costo di ciò che le serviva si aggirava intorno ai cinquemila dollari, includendo un buon margine di guadagno per Paltz. Prima che lei potesse commentare la richiesta, questi la anticipò.

«Ascolta» sussurrò. «La merce che ti serve costa parecchio. Quelli che fabbrichiamo qui sono articoli esclusivi. Se vieni beccata con uno di questi pezzi addosso risaliranno subito a noi. La vendita in sé non è illegale, ma potrebbero rifilarmi un'imputazione di complicità o favoreggiamento. Ormai accuse simili volano come coriandoli. Inoltre, perderei automaticamente il lavoro. Quindi devi pagare caro per coprire il rischio che corro. Prendere o lasciare, il prezzo è questo.»

Solo in quel momento Cassie si rese conto di avere commesso un errore mostrandogli i soldi prima di aver concluso l'affare.

«Okay, mi sta bene» disse infine. «Ho un conto spese.»

«Ci vediamo alle sei, allora.»

«Sì, alle sei.»

 

10

 

Cassie aveva due ore buche prima dell'appuntamento con Jersey Paltz. Pensò di passare subito al Cleo a ritirare la busta che la aspettava alla reception, ma preferì rinunciare considerando che avrebbe dovuto attraversare l'albergo due volte in più esponendosi alle telecamere della sorveglianza. Meglio non fornire a quegli sguardi indiscreti troppe opportunità di individuarla.

Rimase dunque lontana dallo Strip. Prima si fermò in un salone di manicure in un piccolo centro commerciale sulla Flamingo, dove si fece tagliare le unghie il più corte possibile. Non era una scelta molto elegante ma l'estetista, un'asiatica, forse vietnamita, non fece commenti e Cassie ne premiò la discrezione con una mancia generosa.

Poi guidò verso est lungo la Flamingo, superando l'università ed entrando nel quartiere in cui aveva vissuto fino all'età di undici anni. Durante il viaggio in macchina da Los Angeles si era convinta di voler rivedere i suoi luoghi d'infanzia un'ultima volta.

Passò davanti al 7-Eleven dove suo padre la portava a comprare dolciumi e alla fermata d'autobus dove scendeva al ritorno dalla scuola. In Bloom Street, la casetta che era appartenuta ai genitori era ancora dipinta di rosa, ma notò vari piccoli cambiamenti apportati durante i due decenni trascorsi da quando l'avevano lasciata. L'antiquato impianto di deumidificazione sul tetto era stato sostituito da un autentico condizionatore. Il garage era stato trasformato in spazio abitabile e adesso lo spiazzo sul retro era recintato, come in tutte le altre case dell'isolato Cassie si chiese se la famiglia che ci viveva era ancora la stessa che l'aveva acquistata all'asta dopo il fallimento. Avvertì l'impulso di andare a bussare alla porta per chiedere di dare una rapida occhiata alla sua vecchia stanza. Forse l'ultima volta in cui si era sentita veramente al sicuro era stato proprio in quella stanza. Sarebbe stato bello provare ancora qualcosa di simile. Le tornò alla mente un'altra cameretta, quella della piccola Jodie Shaw e la collezione di cani di peluche che aveva visto sul ripiano sopra il letto. Ma cancellò rapidamente quell'immagine e si concentrò di nuovo sui suoi ricordi.

Fissando la casa, pensò alla volta in cui, tornando da scuola, aveva trovato sua madre in lacrime e un uomo in uniforme che attaccava la notifica di sfratto sulla porta di casa. L'ufficiale le aveva detto che l'avviso doveva rimanere esposto, ma non appena se n'era andato sua madre aveva strappato il foglio dalla porta. Poi aveva preso Cassie per mano ed erano montate sulla loro Chevette. Sua madre aveva guidato come una forsennata verso lo Strip, sino a fermarsi bruscamente di fronte al Riviera, parcheggiando l'auto per metà sul marciapiede. Tirandosi dietro la figlia, aveva trovato il padre di Cassie a uno dei tavoli di blackjack e gli aveva sbattuto la notifica di sfratto sulla sgargiante camicia hawaiana. Cassie ricordava ancora perfettamente quella camicia. Sopra c'erano stampate delle ballerine di hula in topless, che si coprivano il seno con le braccia. La madre aveva insultato suo padre chiamandolo vigliacco e altre cose che Cassie non ricordava più con esattezza, finché non era stata allontanata bruscamente dagli uomini del servizio di sicurezza.

Non avrebbe mai dimenticato quella scena. Suo padre era rimasto immobile, senza abbandonare il proprio posto al tavolo da gioco. Aveva fissato la donna che inveiva contro di lui come se fosse una perfetta sconosciuta, con un sorrisetto sarcastico sul viso. Non aveva detto una sola parola.

Non era tornato a casa quella notte e nessuna delle notti seguenti. Cassie lo aveva rivisto solo un'altra volta... quando ormai lavorava a un tavolo di blackjack al Tropicana. Ma a quel punto lui, ormai sprofondato nell'etilismo, non l'aveva neppure riconosciuta e lei non aveva avuto il coraggio di presentarsi.

Distolse gli occhi dalla casa e, di nuovo, nella sua mente si insinuarono le immagini della villa di Lookout Mountain Road. Pensò al disegno sul cavalietto nella cameretta di Jodie Shaw. Nel disegno, la bambina piangeva perché stava per lasciare la sua casa.

Cassie sapeva perfettamente che cosa provava la piccola.

 

11

 

Il traffico nella zona nord di Las Vegas procedeva a passo di lumaca. Quando finalmente Cassie raggiunse l'Aces and Eights Club aveva accumulato un quarto d'ora di ritardo. Tuttavia, prima di entrare si attardò ancora in macchina per infilarsi la parrucca comprata per la visita alla casa. Inclinò lo specchietto retrovisore per controllare di essersela sistemata bene. Con una matita da trucco si scurì le sopracciglia per intonarle alla parrucca e infilò un paio di occhiali con le lenti rosa che aveva acquistato in un emporio.

L'Aces and Eights era un bar frequentato da abitanti del posto, e fino a sei anni prima Cassie ci era venuta regolarmente. Quasi tutti i clienti si guadagnavano da vivere nell'ambiente dei casinò - in modi più o meno legali - e se c'era un luogo dove qualcuno poteva riconoscerla, sia pure dopo un'assenza di sei anni, era proprio quello. Cassie era stata sul punto di dire a Jersey Paltz di scegliere un altro locale per il loro appuntamento, ma poi aveva accettato per non insospettirlo. Doveva confessarlo: era curiosa di vedere se la vecchia tana era cambiata.

Dopo un ultimo controllo nello specchietto, scese dalla Boxster ed entrò nel locale portando lo zainetto sopra una spalla. C'erano parecchi uomini al banco del bar, e dalle divise individuò i casinò per cui lavoravano. C'erano anche un paio di donne, con minigonne e tacchi alti, attrezzate con cellulari e cercapersone... certo prostitute in attesa di clienti del tutto indifferenti al fatto che la loro professione fosse tanto palese. All'Aces and Eights nessuno si impicciava degli affari altrui.

Vide Paltz in un separé circolare sul fondo della sala immersa nella penombra. Era chino su una ciotola di chili. Cassie ricordò che il chili era l'unico piatto sul menu che i clienti regolari osassero mangiare. Ma lei aveva chiuso con il chili, dopo averlo dovuto ingurgitare ogni mercoledì per cinque anni di fila all'High Desert. Si avvicinò e fece per infilarsi nel separé, quando Paltz protestò.

«Tesoro, sto aspettando...»

«Sono io.»

Lui sollevò gli occhi e la riconobbe.

«Non è un po' presto per truccarsi da Halloween?»

«Ho pensato che qui dentro poteva esserci qualcuno che si ricordava di me.»

«Merda, sono sei anni che non ti fai vedere in giro. Per Las Vegas è preistoria. Sai, stavo quasi per andarmene ma poi ho pensato: "Diavolo, sono sei o sette anni che non viene in città, non può sapere che schifo di traffico c'è in giro".»

«Ho visto. Credevo che a Los Angeles le cose andassero male, ma...»

«Las Vegas fa sembrare Los Angeles una fottuta pista ciclabile. Ci servirebbero almeno tre superstrade nuove, con tutti gli edifici che hanno continuato a tirare su.»

Cassie non voleva parlare del traffico o del tempo, e andò dritta allo scopo dell'incontro.

«Allora, che mi hai portato?»

«Prima le cose importanti.»

Paltz scivolò intorno al tavolo fino ad accostarsi a Cassie. Poi infilò la mano sinistra sotto il tavolo cominciando a palpeggiarla. Cassie si irrigidì di colpo.

«Ho sempre voluto farlo» disse Paltz con un sorriso. «Fin dalla prima volta che ti ho vista insieme a Max.»

Il suo fiato sapeva di chili e cipolle. Cassie girò la testa guardando verso il bancone.

«Stai sprecando tempo, non sono...»

Si interruppe. Lui aveva sollevato la mano strusciandogliela lungo il torace e sui seni. Cassie gli allontanò bruscamente il braccio.

«Okay, okay» disse Paltz. «Ma di questi tempi non si è mai prudenti abbastanza, non credi? Hai portato con te i calabroni?»

Lei si guardò attorno per accertarsi che nessuno li stesse osservando. Niente nubi all'orizzonte. Se qualcuno aveva notato le loro espressioni un po' troppo serie, probabilmente le aveva attribuite a una difficile contrattazione fra una puttana e un cliente cafone. Niente di preoccupante, dunque. Anche il palpeggiamento poteva essere interpretato come parte della transazione: di questi tempi, un cliente ha il diritto di controllare la qualità e il genere - specialmente sessuale - del prodotto.

«Ti ho portato quello che hai chiesto» disse lei. «Dov'è il pacco?»

«Nel furgone. Fammi vedere un'altra volta quello che ti ho chiesto, poi ci andiamo.»

«Lo abbiamo già fatto una volta» protestò Cassie. «Adesso fatti in là.»

Paltz scivolò al suo posto. Trangugiò una cucchiaiata di chili e bevve una lunga sorsata di birra.

Cassie spostò lo zainetto dal grembo e lo appoggiò sul sedile, tra sé e Paltz. Lo aprì ma solo in parte. Lo zainetto conteneva anche la borsa di gomma con gli attrezzi. Sopra si notava la mazzetta di banconote. Biglietti da cento dollari... o calabroni, come li chiamavano in certi ambienti di Las Vegas. Era un nomignolo che risaliva a molti anni addietro, quando migliaia di fiches contraffatte dal valore di cento dollari avevano inondato il giro criminale della città. Erano imitazioni perfette dei gettoni gialli e neri usati al Sands, e così li avevano soprannominati calabroni, appunto. Le fiches fasulle erano talmente ben fatte che il casinò aveva dovuto cambiare il colore e il disegno delle proprie. Poi il Sands era scomparso, demolito e sostituito da un nuovo casinò. Ma in un certo giro, l'abitudine di chiamare calabroni i biglietti o i gettoni da cento dollari era rimasta, e chi usava quel termine dichiarava di essere sulla piazza criminale da un bel po' di tempo.

Cassie si accerto che Paltz avesse dato un'occhiata rassicurante al denaro, poi richiuse lo zainetto. Intanto si era avvicinata al tavolo una cameriera.

«Che cosa ti porto?» chiese a Cassie.

Fu Paltz a rispondere per lei.

«No, lei sta bene così» disse. «Adesso dobbiamo uscire un momento, ma poi io torno. Per allora mi servirà un'altra birra, tesoruccio.»

La cameriera si allontanò e Paltz sorrise, sapendo che quanto aveva appena detto avrebbe indotto la cameriera a pensare che i due sarebbero usciti per completare una transazione sessuale. La cosa non preoccupò Cassie, anzi, l'equivoco le serviva come copertura. Ma quello che l'infastidì fu sentirlo chiamare "tesoruccio" la cameriera. Cassie trovava sempre irritante che gli uomini si rivolgessero a delle perfette sconosciute con vezzeggiativi che non corrispondevano a nessun sentimento reale. Ricacciò indietro l'impulso di tirare una stoccata a Paltz e cominciò a scivolare fuori dal separé.

«Andiamo» si limitò a dirgli.

Una volta usciti, Paltz le fece strada verso un furgone parcheggiato su un lato del bar. Sganciò un mazzo di chiavi dalla cintura e aprì il portellone scorrevole. Il veicolo era stato parcheggiato in modo da lasciare solo mezzo metro fra il portellone e il muro del locale. Nessuno poteva dunque sbirciare all'interno senza infilarsi in quella strettoia. Cassie capì che era stata una mossa al tempo stesso buona e cattiva. Buona se Paltz aveva intenzione di giocare pulito. Cattiva se aveva in mente di rapinarla. Lei non aveva mai portato con sé un'arma, e cercò di ricordare se Paltz sapeva della sua abitudine di girare disarmata.

Paltz montò sul furgone e fece segno a Cassie di seguirlo. La cabina di guida era separata da un tramezzo di compensato. Il vano retrostante ospitava due piccole panche imbottite che si fronteggiavano. Dai ganci delle rastrelliere fissate sulle fiancate del frugone penzolavano numerosi attrezzi e alcuni recipienti, sul pavimento, contenevano altri arnesi, strumenti vari e stracci. Cassie esitò davanti al portellone aperto. Nello zainetto aveva quasi diecimila dollari in contanti e adesso doveva isolarsi in un furgone con un uomo con cui non faceva più affari da sei anni.

«Be', questa roba la vuoi o no? Non ho tutta la sera a disposizione, e neanche tu, credo.»

Indicò sul pavimento una valigia American Tourister di taglia media. La raccolse e sedette su una panca posandosi la valigia in grembo. L'aprì sollevando il coperchio contro il petto così da mostrare a Cassie l'equipaggiamento incastonato nell'imbottitura di gommapiuma.

Cassie annuì e solo a quel punto montò sul furgone.

«Chiudi» disse Paltz.

Lei fece scivolare il portellone alle proprie spalle ma senza distogliere lo sguardo dall'uomo.

«Cerchiamo di sbrigarci» disse Cassie. «Non mi piace stare qui dentro.»

«Rilassati, non voglio morderti.»

«Non sono i morsi a preoccuparmi.»

Cassie osservò meglio il contenuto della valigia. Gli strumenti di sorveglianza elettronica erano disposti, un pezzo accanto all'altro, entro nicchie ricavate su misura nella gommapiuma per evitare che sbattessero durante il trasporto. Cassie riconobbe quasi tutti i pezzi: alcuni li aveva già usati in passato, altri li aveva visti su riviste specializzate e cataloghi. C'erano videocamere miniaturizzate, una trasmittente a microonde, una ricevente e altri strumenti complementari. C'erano anche un paio di occhiali per la visione notturna.

Alla stregua di un piazzista, Jersey Paltz fece un gesto come per esibire la sua merce e attaccò il suo discorsetto da imbonitore.

«Vuoi che ti illustri ogni pezzo o credi di potertela cavare da sola?»

«Meglio che mi mostri tutto, tranne gli occhiali notturni. È passato un po' di tempo.»

«D'accordo, allora partiamo da come catturare le immagini e arriviamo a come trasmetterle. Prima di tutto, le microcamere.»

Indicò la metà superiore della valigia. Incassate nella gommapiuma c'erano quattro piccole schede nere con circuiti scoperti e cilindri oculari.

«Qui hai quattro microcamere su scheda... dovrebbero bastarti per ogni genere di lavoro. Quando ci siamo incontrati non mi hai detto se ti serviva il colore ma...»

«Non mi serve il colore. Non mi serve l'audio. Mi servono immagini nitide. Devo leggere dei numeri.»

«Come immaginavo. Queste sono tutte in bianco e nero. Le prime tre che vedi qui sono modelli standard stenoscopici. Quando dico standard, intendo standard Hooten L&S. Al momento nessuno riesce a mettere insieme una scheda integrata migliore. Con queste puoi avere quattrocento linee di risoluzione da un diaframma elettronico lineare. Le immagini sono molto nitide. Funziona da quattro a sei ore con una batteria grande come una monetina. I tempi ti vanno bene?»

«Dovrebbero bastare.»

Cassie cominciava a provare una certa esaltazione. Aveva cercato di tenersi aggiornata sugli sviluppi tecnologici attraverso le riviste di elettronica, ma vedere dal vivo quell'attrezzatura era come trangugiare un liquore ad altissima gradazione: sentiva il sangue batterle forte alle tempie.

Paltz proseguì nell'esposizione.

«Okay, questa qui nell'angolo è la tua macchinetta verde. La chiamano ALI... come Mohammed Ali. E per questo che nel catalogo è definita "la più grande microcamera di tutti i tempi".»

«Ali?»

«A-L-I, ossia Ambient Light Iris, diaframma a luce ambiente. Con questa puoi vedere sia a luci accese che a luci spente. Con gli infrarossi a volte si hanno sovraesposizioni sul visore a cristalli liquidi quando le luci sono accese. Così abbiamo sviluppato questa. Funziona con qualunque luce ci sia nella stanza e fornisce un contrasto sufficiente a vedere quello che devi vedere... forme, ombre, movimenti. Il campo visivo è verde, come al solito. A proposito, stanotte ci sarà la luna piena. Se tu...»

«E ci sarà anche un vuoto di luna.»

«Un cosa?»

«Lascia perdere. Continua.»

«Stavo solo dicendo che se avrai un po' di luce lunare nell'area da riprendere, questa macchinetta funzionerà a meraviglia.»

«Okay, credo che possa andare.»

A Cassie serviva solo vedere a sufficienza per confermare la posizione del bersaglio nel buio della camera. L'ALI sembrava la soluzione ideale.

«Bene, allora andiamo avanti. Puoi prendere una qualunque di queste schede e nasconderla dentro uno dei gusci che vedi qui sotto.»

Sollevò dal suo incavo un falso rivelatore di fumo e glielo mostrò. C'era un minuscolo foro nell'involucro esterno. Le mostrò dove adattare la scheda della microcamera allineando l'obiettivo con il foro.

«Se invece ti serve un'angolazione più bassa...»

Tirò fuori una falsa presa elettrica da parete. La microcamera poteva essere installata dietro la fessura superiore per la spina. La porse a Cassie, che si meravigliò di quanto fosse miniaturizzata.

«È splendida!»

«Ma un po' rischiosa. Il tuo tipo potrebbe cercare di infilare una spina nella presa, e allora... bang! Scoprirebbe che in camera ha una fottuta microcamera. Così, se vuoi usare questo sistema, cerca di piazzarlo in un angolo dove a lui non venga in mente di collegare il computer o il rasoio elettrico o qualunque altro oggetto che funziona a elettricità.»

«Capito.»

«Okay, bene. Quindi adesso ti manca solo di collegare le tue microcamere alle batterie. Così...»

Paltz inserì le minuscole batterie rotonde in connettori collegati con fili alle microcamere.

«E a questo punto le installi. Poi devi collegare le microcamere alla trasmittente. Lavori su distanze brevi, giusto?»

Cassie annuì.

«Giusto. Due metri e mezzo, tre metri al massimo. Probabilmente anche meno.»

Paltz estrasse un rotolo che sembrava di nastro adesivo e glielo mostrò.

«Autentico Conduct-O. Questo l'hai già usato, credo.»

«Sì, verso la fine... per qualche lavoretto.»

Paltz continuò il suo racconto come se Cassie gli avesse chiesto comunque ulteriori spiegazioni.

«È il tuo nastro magico. Contiene due conduttori, uno per il video e l'altro per la terra. Lo colleghi alla microcamera e poi lo stendi fino alla trasmittente. Però ricorda di stare più corta che puoi. Più il tratto di nastro è lungo, maggiori sono le distorsioni all'immagine. E visto che tu devi leggere dei numeri...»

«Giusto. Me lo ricorderò.»

Dall'attaccatura dei capelli di Paltz colò un rivolo di sudore, che gli rigò la guancia. A Cassie non sembrava che il calore all'interno del furgone giustificasse una reazione simile. Lo osservò mentre sollevava un braccio e si asciugava il viso sulla manica.

«Qualcosa non va?»

«Niente» disse Paltz, frugando nella valigia. «Qui dentro comincia a mancare l'aria, tutto qui... Questa è una trasmittente a quattro canali.»

Tirò fuori dalla gommapiuma una scatoletta piatta e quadrata grande più o meno quanto un telefono cellulare, con un'antenna retrattile da sei pollici.

«È onnidirezionale... quindi non importa con quale angolazione la sistemi. Basta che sia vicina alle microcamere per avere i segnali più nitidi. Non è camuffata in nessun modo, ma dal momento che non è una microcamera, puoi nasconderla praticamente dovunque... sotto un letto, in un cassetto, in un armadio, dove ti pare. Anche questa ha una batteria, che dura quanto quelle delle microcamere. Okay?»

«Okay.»

«E adesso, il compito della trasmittente è di trasmettere le immagini catturate alla tua centralina a distanza. Ecco: guarda che gioiellino.»

Tirò fuori dalla valigia il pezzo più grande. Sembrava un minuscolo computer portatile, ma anche una specie di cestino da picnic spaziale. Paltz ne sollevò lo schermo e allungò un'altra antenna.

«Questa è la tua stazione ricevente a microonde, con la quale puoi anche registrare le immagini. Puoi piazzarla fino a duecento metri dalla trasmittente e ottenere ancora un'immagine accettabile, ma attenzione agli eventuali ostacoli.»

«Quali ostacoli intendi?»

«Niente di cui probabilmente dovrai preoccuparti. Acqua, per lo più. Anche la linfa degli alberi è micidiale. Ma tu non lavorerai in una foresta, giusto? Le piante mandano a puttane questo genere di segnale.»

«Ci sono boschi a Las Vegas, Jersey?»

«Non che io sappia.»

«Allora nessun rischio di incappare in una foresta. Niente alberi, niente linfa.»

Il nervosismo di Paltz cresceva e stava diventando contagioso. Si rese conto che, senza finestrini sul retro del camioncino, non poteva sapere se al momento di uscire avrebbero trovato qualcuno ad aspettarli... o ad aspettare lei. Quell'appuntamento era stato gestito in modo imprudente.

«E l'acqua?» chiese Paltz.

La domanda distolse Cassie dai suoi pensieri. Rifletté un attimo e ricordò che il Cleopatra aveva una piscina, ma a pianterreno.

«Niente acqua nei paraggi.»

«Bene. Acciaio, cemento, è tutta roba che non crea problemi. Stai alla giusta distanza e dovrebbe funzionare perfettamente.»

Paltz cominciò a trafficare con i pulsanti della ricevente. L'accese e lo schermo si illuminò di una nebbiolina statica. Batté un dito sopra un pulsante rosso sul lato destro della minuscola tastiera.

«Questo avvia la registrazione. Puoi registrare tutto quanto o startene solo a guardare. Lo schermo si può suddividere per sorvegliare fino a quattro microcamere contemporaneamente.»

Pigiò una serie di pulsanti e lo schermo si suddivise in quattro parti. Erano sempre quattro schermate di nebbiolina luminescente.

«Adesso non riceviamo immagini perché non abbiamo collegato le microcamere. Ma ho già caricato le cassette per registrare e tutto è pronto per cominciare.»

«Okay. Hai fatto un buon lavoro, Jersey. Hai niente altro da mostrarmi? Dovrei andare.»

«È tutto. Ora, basta che mi paghi quanto stabilito, poi potrai andartene e io tornerò al mio chili... anche se ormai sarà freddo.»

Cassie si tirò sulle gambe lo zainetto.

«Lavori da sola a questo colpo, Cassie?»

«Già» rispose lei senza riflettere.

Mentre apriva lo zainetto, Paltz richiuse la valigia e sollevò l'altro braccio: impugnava una pistola, che le puntò al petto.

«Cosa fai?!»

«Non ti facevo così scema» disse lui.

Cassie fece per alzarsi ma lui le intimò con l'arma di rimettersi seduta.

«Senti, amico, ho intenzione di pagarti. Ho qui i soldi. Cosa ti prende?»

Paltz passò la pistola nell'altra mano e appoggiò la valigia sul pavimento. Poi allungò la mano libera verso lo zainetto.

«Questo lo prendo io.»

Glielo strappò con violenza dalle mani.

«Jersey, avevamo un accordo. Noi...»

«Chiudi quel cazzo di bocca.»

Cassie cercò di restare calma, e rimase a osservare Paltz che infilava la mano nello zainetto. Senza muovere un solo muscolo, levò tutto il peso dal piede sinistro e lo sollevò leggermente dal pavimento. Paltz le sedeva proprio di fronte, con le ginocchia divaricate di una trentina di centimetri. Cassie parlò in tono calmo, misurato.

«Jersey, si può sapere cosa combini? Perché hai messo insieme tutta l'attrezzatura se volevi soltanto rapinarmi?»

«Volevo essere sicuro che lavorassi da sola, che non ti fossi presa un sostituto di Max.»

Cassie sentiva la rabbia gonfiarsi dentro. Quel bastardo l'aveva ingannata, considerandola fin dall'inizio una vittima, una povera idiota senza complici che aspettava solo di essere raggirata.

«Sai una cosa?» disse Paltz, quasi euforico. «Adesso che ci penso, forse potrei rimediare anche una scopata. Godermi un po' di quello che Max teneva solo per sé. Scommetto che dopo cinque anni al fresco ti farà bene un po' di pratica.»

Sogghignò.

«Stai facendo un grosso errore, Jersey. Sono qui da sola ma lavoro per altra gente. Credi che sia semplicemente piombata in città e abbia scelto un bersaglio a caso? Se fotti me, tu fotti loro. E a loro non piacerà. Quindi, perché non torniamo al nostro accordo? Tu ti prendi i soldi e io mi prendo l'attrezzatura. Dimenticherò la pistola, quello che hai fatto... e anche quello che hai appena detto.»

«Stronzate.»

Tenendo gli occhi puntati su Cassie, Paltz cominciò a frugare nello zainetto cercando il denaro. Ci fu un secco sfrigolio elettronico e Paltz lanciò un grido. Nello stesso istante in cui lui ritirava repentinamente la mano dalla borsa, la gamba sinistra di Cassie scattò in avanti con violenza piantando la spessa suola della Doc Marten sui testicoli di Paltz. Lui si piegò all'indietro con un grugnito di dolore e premette il grilletto della pistola.

Lo sparo fu assordante. Cassie avvertì il leggero squarcio provocato dalla pallottola che trapassava la parrucca cotonata, e sentì anche il calore della polvere da sparo scottarle il collo e la guancia. Balzò fulminea addosso a Paltz, afferrò la pistola con entrambe le mani. Gli stava quasi inginocchiata sopra. Tirò a sé la mano che ancora stringeva l'arma e la morse ferocemente. Non era la paura ad alimentare le sue azioni: era la rabbia.

Paltz lanciò un urlo e mollò la pistola. Cassie l'agguantò e si staccò. Gli puntò la pistola - che con una rapida occhiata aveva identificato come una Glock 9 mm - contro il viso, distante circa mezzo metro.

«Stupido pezzo di merda!» strillò lei. «Vuoi morire? Vuoi proprio morire dentro questo furgone del cazzo?!»

Paltz boccheggiava, attanagliato dal forte dolore ai testicoli. Cassie si portò una mano al viso e se lo toccò alla ricerca di sangue. Era sicura che il colpo fosse andato a vuoto, ma aveva sentito dire che a volte non ci si accorge nemmeno di essere stati impiombati.

Tolse la mano e la sbirciò. Era pulita. Imprecò lo stesso ad alta voce. Paltz aveva avuto una pessima idea tentando di rapinarla. Si sforzò di riflettere con lucidità, ma l'orecchio le fischiava ancora per il boato e il collo le pizzicava per la superficiale bruciatura.

«Stenditi sul pavimento!» ordinò. «Mettiti giù! Stupratore del cazzo! Dovrei ficcarti questa pistola su per il culo!»

«Mi dispiace» gemette Paltz. «Avevo paura. Non...»

«Non dire stronzate! Stenditi e basta. A faccia in giù. Subito!»

Paltz si voltò lentamente sul pavimento.

«Cos'hai intenzione di fare?» chiese lamentoso.

Cassie gli si piazzò sopra con le gambe divaricate, poi si chinò e premette la bocca della pistola contro la sua nuca. Armò il percussore. Il suono dello scatto metallico raggelò Paltz.

«Ehi, Jersey, che ne dici, vuoi ancora scoparmi? Credi di riuscire a farlo rizzare?»

«Oh, Dio...»

Cassie si guardò intorno nel furgone, concentrandosi sui contenitori che stavano per terra. Da uno di questi prese una striscia di plastica dentellata di quelle che si usano per legare i cavi elettrici. Disse a Paltz di mettere le mani dietro la schiena. Lui eseguì e Cassie notò che lo storditore elettrico che teneva nello zainetto gli aveva lasciato una bruciatura sul dorso della mano. Avvolse la striscia intorno ai polsi di Paltz e ne strinse l'estremità nell'apposita chiusura, tirandola al punto da far penetrare la dentellatura nella pelle. Poi posò la pistola sul pavimento e recuperò altre cinghie per legargli gambe e caviglie.

«Spero che tu abbia mangiato abbastanza chili, pezzo di merda, perché passerà un po' di tempo prima che tu possa fare il bis.»

«Devo pisciare, Cassie. Ho bevuto due birre mentre ti aspettavo.»

«Nessuno te lo impedisce.»

«Oh, Cristo... Ti prego, Cassie, non farmi questo.»

Cassie prese uno straccio da uno dei contenitori e si inginocchiò bruscamente sulla schiena di Paltz, chinandosi verso il suo orecchio.

«Non dimenticare che sei stato tu a cominciare, stronzo. Adesso ti farò una sola domanda, e ti conviene rispondere sinceramente perché potrebbe costarti la vita. Hai capito?»

«Sì.»

«Quando apro quel portello, chi trovo appostato là fuori? Magari uno dei tuoi amici che ti sei portato dietro per rapinarmi?»

«No, non c'è nessuno.»

Raccolse la pistola e premette con forza la canna contro la guancia di Paltz.

«Sarà meglio per te. Se apro il furgone e vedo qualcuno, scarico quest'arnese nella tua testa merdosa.»

«Non c'è nessuno. Sono solo.»

«Allora, apri, da bravo.»

«Cosa...»

Gli spinse lo straccio nella bocca socchiusa mozzandogli la frase. Unì a cerchio due cinghie di plastica e gliele allacciò intorno alla testa bloccando il bavaglio alla bocca. Paltz spalancò gli occhi, terrorizzato.

«Col naso, Jersey. Respira col naso e starai benissimo.»

Cassie gli sganciò dalla cintura le chiavi del camioncino. Poi si scostò e recuperò lo zainetto, dal quale estrasse una sacca nera da ginnastica. Cominciò a trasferire l'attrezzatura dalla valigia di Paltz nella sacca.

«Okay, il programma è questo» disse. «Ora prendiamo il tuo furgone, dopo di che vado a fare il mio lavoretto.»

Paltz cercò di protestare, ma le sue parole risuonarono come un mesto brontolio soffocato dal bavaglio.

«Bene, sono contenta che tu sia d'accordo, Jersey.»

Non appena ebbe trasferito tutto il materiale, si sistemò lo zainetto su una spalla e si accostò al portellone laterale. Spense la luce interna, poi lo aprì con una mano mentre con l'altra teneva la pistola in posizione di tiro.

Via libera. Scese dal furgone, si sporse all'interno per prendere la sacca e poi tirò il portellone chiudendolo a chiave. Si spostò verso il posto di guida, sempre tenendo la pistola pronta. Il parcheggio era pieno di macchine, ma non notò niente di sospetto.

Aprì la portiera, e prima di salire espulse il caricatore della Glock snocciolandone sull'asfalto i proiettili uno dopo l'altro. Poi lanciò pistola e caricatore vuoto sul tetto piatto dell'Aces and Eights.

Salì al posto di guida, mise in moto e uscì dal parcheggio. Notò che la radio sul cruscotto mostrava un bel buco al centro. La pallottola sparata da Paltz aveva trapassato il divisorio di compensato andando a conficcarsi nella radio. Questo la rese consapevole del bruciore al collo e alla guancia. Accese la luce interna e si guardò nello specchietto. Aveva la pelle rossa, leggermente gonfia. Sembrava che le avessero strofinato sulla pelle una pianta urticante.

Infine guardò l'orologio. La sceneggiata di Paltz le aveva fatto allungare i tempi. Spense la luce interna e si diresse verso le luci al neon dello Strip, il cui bagliore, nonostante la distanza, era sin troppo visibile.

 

12

 

Koval Road correva parallela al Las Vegas Boulevard e offriva accesso ai parcheggi dietro i grandi locali che si affacciavano sul viale principale, perennemente affollato e meglio noto come lo Strip. Cassie superò le Koval Suites, le residenze in affitto dove una volta anche lei e Max avevano stabilito il loro rifugio, e svoltò nel parcheggio a più piani collegato al Flamingo. Il parcheggio occupava una posizione centrale rispetto allo Strip, e consentiva a Cassie di rispettare la regola secondo cui non si lascia mai l'auto vicino all'albergo dove si opera. Piazzò il furgone di Paltz all'ultimo piano: sapeva che lassù ci sarebbero state meno automobili e minori possibilità che il suo passeggero legato e imbavagliato venisse scoperto. Evitò gli ascensori e scese le scale fino al passaggio coperto che conduceva al casinò.

Portando lo zainetto nero su una spalla e la sacca da ginnastica nera dall'altra parte, entrò dalla porta posteriore del Flamingo e attraversò l'intero casinò fino all'ingresso principale, fermandosi solo in uno dei negozi dell'atrio a comprare un pacchetto di sigarette - nella remota eventualità di dover far scattare un allarme antincendio - e un mazzo di carte souvenir con le quali passare il tempo in attesa che il suo uomo si addormentasse. Una volta uscita dall'ingresso principale, attraversò il Las Vegas Boulevard e superò i due isolati che ancora la separavano dal Cleopatra.

Cassie si lasciò trasportare oltre le vasche illuminate dal tapis roulant che conduceva i giocatori all'entrata del casinò. Notò che non venivano offerti altrettanti agi ai giocatori che abbandonavano il casinò dopo aver speso i loro soldi.

Le pareti dell'ingresso erano ricoperte di geroglifici e decorazioni che mostravano figure di antichi egizi con alti copricapi intenti a giocare a carte e a lanciare dadi. Cassie si domandò se avevano un qualsiasi fondamento storico, ma poi si ricordò di essere a Las Vegas, dove la plausibilità non era certo un valore dominante.

Superate le decorazioni, trovò pareti dedicate al Cleo's Club, con le fotografie di quelli che avevano vinto più soldi alle slot machines nel corso dell'ultimo anno. Cassie notò che molti sorridevano in modo strano, quasi cercassero di nascondere una brutta dentatura. Chissà quanti di loro avevano usato la vincita per andare da un dentista e quanti l'avevano invece scaricata di nuovo dentro una macchinetta.

Quando infine arrivò alla sala da gioco, fece una breve sosta per memorizzare ogni particolare. Non alzò però mai lo sguardo, per evitare che le telecamere inquadrassero il suo volto. Un senso di angoscia le strinse il cuore. Non per il lavoro che l'aspettava, ma per il ricordo di quell'ultima notte in cui era stata al Cleopatra Casino. La notte in cui la morte si era insinuata nella sua vita.

La sala non le sembrava cambiata. La stessa disposizione dei tavoli, gli stessi giocatori intercambiabili all'inseguimento di sogni disperati. Il frastuono prodotto da monete, macchine e voci venate di gioia o delusione era quasi assordante. Tirò un lungo respiro e procedette, aprendosi un varco come se fosse su un campo da football dove, invece dei giocatori, c'erano macchinette mangiasoldi e tavoli da gioco ricoperti di feltro blu. Era consapevole che lì dentro ogni suo movimento veniva registrato dall'alto. Teneva la testa lievemente china in avanti, con l'ampia tesa del cappello calata sulla fronte, e per completare il camuffamento portava un paio di occhiali scuri. Sotto la parrucca sentiva pruderle il cuoio capelluto, ma sapeva che sarebbero passate ore prima di poter porre termine a quel fastidio.

Passando fra le file di tavoli dove si giocava a carte e a dadi, notò vari uomini e qualche donna in blazer blu: l'uniforme dei servizi di sicurezza del casinò. Erano appostati accanto a ogni colonna e in fondo a ogni fila di tavoli. Vide le indicazioni per la hall dell'albergo e le seguì. Mentre camminava sbirciò verso l'alto, senza mai sollevare il mento.

Il soffitto in vetro era circa tre piani sopra i tavoli da gioco. All'epoca della sua inaugurazione, sette anni prima, il Cleopatra era stato ribattezzato la "Cattedrale di cristallo", una definizione che alludeva a una chiesa californiana resa celebre da diversi programmi televisivi di tipo religioso, alla quale il casinò assomigliava. Sotto il soffitto, travi metalliche si stendevano da una parete all'altra reggendo batterie di luci e telecamere. Il Cleopatra si differenziava da tutti gli altri casinò di Las Vegas perché consentiva alla luce naturale di inondare la sala da gioco. E le telecamere erano bene in vista. Altrove gli ambienti erano chiusi, con illuminazione artificiale e telecamere nascoste dietro pareti a specchio o dentro decorazioni del soffitto, anche se nessuno dei giocatori ignorava che ogni suo movimento - come pure il denaro sui tavoli - era costantemente sorvegliato.

Lo sguardo di Cassie fu attratto dalla galleria che sporgeva come un paio di braccia conserte sopra i tavoli affollati. Le braccia si chiudevano in una specie di coppa... il cosiddetto "pulpito", da cui un tipo dal viso arcigno osservava la sala sottostante. Aveva i capelli bianchi e indossava un vestito scuro, non il tipico blazer blu. Cassie immaginò che fosse uno dei responsabili del servizio di sicurezza, forse il boss in persona. E non poté fare a meno di chiedersi se era stato appollaiato su quel pulpito anche sei anni prima, durante quella tragica notte.

Superati gli ultimi tavoli, Cassie raggiunse la hall e si diresse verso l'estremità del lungo banco dove spiccava il cartello OSPITI INVITATI E VIP. Nessun cliente la precedeva. Si avvicinò al banco, dove un'impiegata che indossava una specie di tunica bianca dall'aria vagamente egizia le sorrise.

«Salve» disse Cassie. «Dovrebbe esserci una busta per me. A nome Turcello.»

«Un istante, prego.»

La donna si staccò dal banco per ritirarsi verso una porta alle sue spalle. Cassie sentì il respiro rallentare e la paranoia del ladro stringerle il petto. Se era una trappola, quello era il momento in cui gli uomini in blazer blu sarebbero corsi fuori da quella porta per agguantarla.

Ma l'unica che ricomparve fu l'impiegata in tunica. Aveva con sé una grossa busta arancione con lo stemma del Cleopatra - un disegno al tratto di un profilo femminile, con un copricapo a forma di serpente pronto ad attaccare. Le porse la busta con un sorriso.

«Grazie» le disse l'impiegata.

«Grazie a lei» disse Cassie accomiatandosi.

Portò la busta senza neppure guardarla in una rientranza della sala che ospitava una fila di telefoni pubblici. Non li stava usando nessuno. Andò all'apparecchio nell'angolo e si girò perché nessuno vedesse cosa stava facendo.

Aprì la busta, ne sollevò il lembo e ne versò il contenuto sul ripiano di marmo sotto il telefono. Un cercapersone nero con lettore digitale scivolò fuori insieme a una chiave a scheda magnetica, una fotografia e un biglietto strappato da un blocco per appunti del Cleopatra. Lanciò una veloce occhiata al cercapersone e se lo agganciò alla cintura. Poi si infilò la scheda nella tasca posteriore dei jeans neri e guardò il biglietto. C'erano quattro righe scritte a stampatello.

 

EUPHRATES PENTHOUSE

Sua: 2014

Tua: 2015

Restituire busta con tutto il contenuto al banco VIP.

 

Esaminò la prima riga e sentì un nodo allo stomaco. Appoggiò la testa contro il telefono. L'attico dell'Euphrates Tower le era familiare. Era il luogo in cui sogni e speranze si erano infranti. Un conto era tornare a Las Vegas, e un altro ancora era ritrovarsi al Cleo... ma dover addirittura tornare al "penthouse"... Cassie lottò contro l'impulso di mollare tutto e fuggire. Ricordò a se stessa qual era la posta in gioco. E ormai si era spinta troppo oltre per ritirarsi.

Tentò di volgere i pensieri altrove. Guardò di nuovo il biglietto e riprese dalla tasca la scheda magnetica. Una sola chiave per due camere voleva dire che quella che aveva in mano era una chiave universale, di servizio. Questo spiegava l'ultima riga di istruzioni sul biglietto. La chiave doveva essere restituita perché probabilmente tutte le chiavi di servizio erano contate e registrate. Quando avessero cominciato a indagare sul crimine che lei stava per commettere, avrebbero senz'altro fatto un inventario di quelle chiavi.

Accartocciò lentamente il biglietto in una mano, poi guardò la foto. Mostrava un tavolo di baccarat dove c'era un solo giocatore: un uomo obeso con un grosso mucchio di fiches davanti a sé. Diego Hernandez. La foto aveva una data e un'ora stampigliate in un angolo: era stata scattata quello stesso pomeriggio. Cassie capì subito che proveniva da una telecamera di sorveglianza del casinò. La foto e la chiave magnetica le dissero che il misterioso informatore dei soci di Leo era molto più interno di quanto lei avesse pensato.